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Cantastorie – 03 – La piazza, lo spazio ideale dei cantastorie

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Il tema della tutela dei beni immateriali (feste, rituali, costumi…) è all’ordine del giorno. L’Italia ha ratificato recentemente la convenzione dell’Unesco del 2003 su questo tema e si appresta a stilare una “lista” nazionale dei beni da valorizzare e tutelare. Mauro Geraci è un antropologo, professore associato di Etnologia presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Messina, grande studioso dei cantastorie e cantastorie egli stesso. In questa intervista espone la sua teoria sugli aspetti critici della tutela, sul ruolo del ricercatore antropologo, sulla figura del cantastorie.

Le feste, le tradizioni sono considerate come patrimoni da difendere, da tutelare per impedirne la sparizione o l’oblio. È possibile stabilire un criterio una volta per tutte che promuova un fatto culturale piuttosto che un altro?

«È già difficile sostenere che un canto o una festa popolare o una performance siano immateriali: di fatto sono composti da strumenti musicali, divise delle congregazioni che sfilano lungo le strade, fiori per quello che riguarda le infiorate: si tratta di oggetti, di materiali. Anche i concetti d’altra parte potrebbero essere considerati “beni immateriali”: l’onore o la verginità, ad esempio, sono fatti culturali, che ci piaccia o meno; il problema è il punto di vista. E ancora, chi decide che questa festa deve essere valorizzata e non quell’altra? Gli antropologi a volte possono studiare un evento festivo per diversi anni (vedi Malinowski, che ha passato quattordici anni a studiare la forma di scambio kula dei trobriandesi), e la conclusione di solito è che il punto di vista di chi pratica la festa – il cittadino, il prete, il mafioso, l’amministratore locale – è fondamentale. Un conto dunque è “valorizzare” solo l’aspetto estetico, folkloristico; un altro è riflettere davvero sul punto di vista, cioè sulla politica della valorizzazione».

Possono essere stabiliti dei criteri? L’Unesco parla di rappresentatività dell’evento all’interno della comunità. C’è un ruolo dell’antropologo nel definire contorni e sostanza del concetto di tutela?

«Prendiamo la Festa dei Gigli di Nola: dai Gigli oggi vengono suonate canzonette, marcette, e non le tammurriate della tradizione contadina, eppure la festa dei Gigli di Nola ha una sua continuità, anche se si tratta di un festival più che di una festa. Credo insomma che il discorso della tutela debba essere distaccato da un approccio antropologico, il quale non deve riconoscere “beni” e “mali”, perché il concetto di bene si lega al concetto di utile, a ciò che va accumulato, a ciò che tranquillizza, a ciò che può essere scambiato, ma non è questo il progetto dell’antropologia. Io penso che l’antropologia debba invece studiare come si articolino determinati fenomeni nella continuità, deve chiarire i punti di vista, anche quelli che rischiano chiaramente di essere ottocenteschi, di stampo positivista. Oggi l’antropologia ha fatto molti passi avanti, e grazie anche all’apporto di intellettuali eretici come Scotellaro, Pasolini, Dolci, Revelli si occupa anche di autobiografia, di scritture contadine, portando il discorso dei contadini dentro l’accademia. Lentamente si è passati dal considerare il mondo contadino come essenzialmente legato all’oralità al connetterlo con la modernità: io mi sono occupato dell’autobiografia di un cantastorie con la quinta elementare, Vito Santangelo, che dal 1974 ha iniziato a scrivere tutta la sua vita. Dunque il mondo contadino non è più quello pregramsciano, idealizzato dal romanticismo: Goethe nel suo viaggio in Sicilia cadeva in stereotipi di tipo orientalista, e d’altra parte la Sicilia era un po’ come il Bangladesh di oggi.
Il punto di vista è fondamentale: se allestiamo un museo degli attrezzi agricoli bisogna chiarire il ventaglio mutevole degli usi ad essi connessi. Insomma, di quali pratiche stiamo parlando? Di quelle del bracciante oppure di quelle di Candido, il barone feudatario descritto da Sciascia, che per dimostrare di essere “vicino ai contadini” – così come Fernando di Borbone era “vicino” al popolo napoletano per il solo fatto che parlava la lingua – si mette anche lui a coltivare un pezzetto di terra per l’orto, con gli stessi attrezzi, gli stessi utensili dei contadini sfruttati? È sicuramente più facile tutelare gli archivi, le biblioteche, i musei archeologici: bene o male all’interno di un archivio puoi trovare carte che parlano di Garibaldi come di un eroe e altre che dicono il contrario: sono tutte e due consultabili ed è possibile accedere a fonti diverse. Ma se parliamo di beni cosiddetti immateriali la cosa si complica molto: se già un libro non esiste se non nella molteplicità delle letture che ne possono essere date, in una festa questa variabilità si moltiplica in modo esponenziale. Perlomeno in un caso – il libro – abbiamo un testo scritto, ma nella festa, o di un canto, non c’è: è un miscuglio di visivo, di orale, di musicale, di simbolico, di politico.
Il rischio della valorizzazione dei beni immateriali è che vengano utilizzati, magari in modo più “raffinato”, gli stessi quadri conoscitivi che alimentano il mercato folkloristico e turistico. Appunto per questo il campo della tutela non dovrebbe sovrapporsi a quello dell’antropologia, e un antropologo non dovrebbe addentrarsi nella scelta di cosa va tutelato e cosa no. La disciplina per funzionare deve paradossalmente smettere il suo essere disciplinare, non deve scegliere; l’antropologo può invece collaborare, può segnalare sviluppi, aperture, contraddizioni».

L’Opera dei Pupi è già stata riconosciuta come capolavoro del patrimonio orale e immateriale dell’umanità dall’Unesco. È possibile che ci sia un riconoscimento equivalente per il patrimonio rappresentato dai cantastorie?

«Ritorna qui la questione del punto di vista: forse il teatro dei Pupi gode di un riconoscimento tanto importante perché vincono sempre i cristiani e perdono sempre i pagani? I Pupi riportano sulla scena i valori della regalità della feudalità, della sottomissione al più forte, della cristianità armata qual era quella di Orlando, mentre invece i cantastorie queste cose le demoliscono; basti analizzare come il repertorio epico-cavalleresco viene trattato dai pupari e come viene trattato dai cantastorie per trovarsi di fronte a due prospettive completamente diverse. I cantastorie scavano nella Chanson de Roland, nei repertori medievali e rinascimentali; i pupari nascono in Sicilia nell’Ottocento e attingono alle rivisitazioni romantiche dello stesso repertorio, perdendo così alcune caratteristiche. Nella Chanson de Roland a un certo punto Orlando – mentre sta morendo – sembra accennare ad un pentimento; muore da cristiano con la croce stampata sulla corazza e con la Durlindana in mano, che tra l’altro nell’incrocio tra l’elsa e la lama contiene un reliquiario dove si conserva un pezzettino della croce di Cristo. Ma con quella stessa spada lui ha ammazzato i Saraceni a migliaia! Nel momento della morte si ricorda del perdono e del cristianesimo non armato. Ignazio Buttitta, grandissimo poeta cantastorie, commenta così il perdono improvviso di Orlando: “cu sapi si u Signuri u fa trasiri ‘nto u Paradisu!”. In questo modo il cantastorie mette in discussione implicitamente l’icona di Orlando come Cristo armato, primo Paladino di Francia e condottiero valoroso: non è affatto sicuro che il Signore lo accolga in Paradiso.

I cantastorie dunque esplicitano le contraddizioni, e non hanno una scena predefinita; i pupari invece non fanno altro che ripresentare i valori del mito. La spada che muovono i paladini dipende direttamente dalla bacchetta che tengono in mano i pupari: è una spada che separa il valore dal disvalore, la cristianità dalla paganità. Dunque c’è sempre una scelta di carattere etico-politico dietro la tutela, ma quando si arriva alle scelte cessa l’antropologia, perché l’antropologo più non sa più è tale. Un altro esempio della parzialità dei punti di vista è la gestione dei simboli festivi che diventa motivo di consenso. Io sono stato a Priverno a vedere una straordinaria festa del Venerdì Santo, e si vedevano chiaramente le contraddizioni enormi tra una festa basata sul silenzio e il megafono della chiesa nuova che rompeva quell’equilibrio simbolico.
Il contributo che l’antropologo può dare alla tutela è fare scattare questi ragionamenti. Nell’arco di decenni si può arrivare a progetti di tutela più consapevoli e rispettosi. L’antropologo non fa ricerca come l’astronomo che studia le stelle; l’universo dell’antropologo si modifica mentre ci sei dentro, non è possibile documentare alcuna realtà oggettiva: la realtà è frutto della descrizione che ti fanno quegli uomini, quelle donne e non altri, di quella che fai tu in questo momento e in questo luogo, diventa un fatto quasi esistenzialista. Ci sono dei musei per esempio in cui questo aspetto creativo non viene taciuto, anzi viene messo in primo piano. Non è, ad esempio, il museo “del brigantaggio”: è il museo del brigantaggio fatto da questi informatori e da questo studioso con questa visione. Allora diventa come un libro, o un quadro e là l’assunzione della poetica è importante.
Compito dell’antropologo è fare insorgere dei dubbi che a lungo andare rendono più consapevole chi è predisposto alla tutela a un maggiore rigore scientifico».

Qual è la modernità del cantastorie? Quale la sua identità oggi?

«All’interno di ogni ambito socio-culturale ci sono zone che non sono affatto improntate alla cosiddetta “tradizione”, anzi tutt’altro. Il cantastorie esattamente come il pittore o lo scrittore deve variare la sua arte. Se uno va a cantare sempre la Baronessa di Carini o Orlando e Rinaldo o la leggenda di Colapesce, non è un cantastorie, ma la macchietta stereotipata di esso. Però paradossalmente quando si tenta di “valorizzare” il cantastorie vince lo stereotipo dell’”ultimo”, di quello che canta le “cose antiche”, ma a ben vedere non c’è nessuna antichità da rivendicare. I cantastorie nascono con la modernità, nel momento in cui dopo la Prima Guerra Mondiale la canzone si comincia un po’ ad americanizzare, si sviluppano le prime forme di disco, si afferma più robustamente una cultura nazionale e internazionale, di massa, ed è a questa che i cantastorie si rivolgono. Non è un fatto locale; la tradizione viene continuamente ripensata, i mezzi di comunicazione si rinnovano – tutti i cantastorie oggi hanno siti internet – ed il loro sapere è basato non sulla tradizione ma sull’innovazione. È l’aspetto moderno dunque che andrebbe tutelato e non lo stereotipo del cantastorie come ultimo relitto di un medioevo disneyano. Se invece si colloca il cantastorie in un museo o in una manifestazione gestita – mettiamo – dalla pro loco con fini di promozione turistica, di fatto gli si sta sottraendo il suo spazio ideale che è la piazza, telematica o reale che sia. I cantastorie riflettono su questioni della vita contemporanea, scrivono della guerra in Iraq, cantano la violenza sulle donne: è questo spessore critico che andrebbe valorizzato nel restituire la piazza come spazio libero ed imprevedibile di riflessione pubblica.
Un po’ come l’antropologo il cantastorie prima di scrivere un testo si deve documentare, parla con i diretti protagonisti, legge i giornali, si informa, assembla i materiali e cerca di ricostruire – senza levare e mettere, come diceva Orazio Strano – una versione poetica dei fatti. Che non è definitiva; viene poi musicata e cantata in piazza, quindi sottoposta al giudizio pubblico, e magari commentata, interrotta, evidenziata in un passaggio invece che in un altro. È una versione scritta che viene riesposta alla riflessione collettiva, un sapere sempre in movimento. Il cantastorie si estranea dal proprio giudizio, magari è di parte ma denuncia questa parzialità, offrendo gli elementi per attaccare, contrastare, ripensare insieme un fatto. Il cantastorie è mediatore nel senso più pieno del termine perché utilizza diversi mezzi – oralità, pittura, musica, gestualità, grafica – e la storia che narra viene spaccata in più canali comunicativi, ma anche perché presenta una storia “esterna”, che deve poi però rappresentare in prima persona, incarnando il personaggio, il bandito, il carabiniere, la mamma; possiamo dire dunque che si muove di continuo tra presentazione e rappresentazione.

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Cantastorie – 02 – l’arte del dubbio contro l’ufficialità

Il mestiere del cantastorie: l’arte del dubbio contro l’ufficialità Tratto da quiUna piazza, uno sgabello o una macchina come palcoscenico, un cartellone dipinto a mano con grandi riquadri illustrati o un proiettore con diapositive per la scenografia: sono questi gli elementi, ogni volta diversi a seconda delle latitudini, dei tempi e delle opportunità, che fanno da cornice all’azione dei cantastorie. “Nati” intorno agli anni Venti del Novecento, sulla scia dei canzonettisti popolari, i cantastorie hanno accompagnato il corso della storia raccontandone i fatti salienti, le cronache, le biografie di personaggi illustri, i punti di crisi e di svolta. A cominciare da Ignazio Buttitta, grande poeta cantastorie siciliano nato all’alba del secolo scorso, passando per Orazio Strano, Turiddu Bella, Ciccio Busacca, Franco Trincale, fino ad arrivare agli artisti degli ultimi decenni come Fortunato Sindoni, Vito Santangelo, Mauro Geraci, i cantastorie sono a tutti gli effetti “cantori di modernità”, nel senso che la loro rielaborazione di eventi e storie non si lascia mai incorniciare in un quadretto folkloristico, né si presta alla replicabilità di un’interpretazione data una volta per tutte, appartenente al passato.Sono due le grandi aree italiane che hanno visto l’affermarsi della figura del cantastorie: una la Sicilia, l’altra l’area centrosettentrionale, dalla Toscana al Veneto, con frequenti scambi di testi scritti tra artisti di diversa provenienza che creano così interessanti relazioni tra Nord e Sud del paese.
La presenza significativa in Sicilia si spiega con una grande diffusione nell’isola della canzone narrativa a livello popolare già dalla fine dell’Ottocento. La canzone narrativa, di tradizione orale, non era il prodotto di un singolo cantastorie ma di una “stratificazione” di versioni nel corso del tempo. Inoltre c’era una fortissima influenza del teatro dialettale borghese, che a Napoli e a Roma prendeva il nome di pulcinellata; in Sicilia c’era invece, oltre al teatro dei Pupi, la cosiddetta vastasata, che prende il nome dal vastaso, letteralmente il “facchino”, corrispondente al servitore sciocco della commedia goldoniana, che si diffonde tra Sette e Ottocento grazie all’azione teatrale di artigiani, impiegati che ritraevano i personaggi della vita di tutti i giorni appartenenti al popolino.
Nel repertorio dei cantastorie c’è anche una forte connessione con la canzone sociale: esiste infatti un vasto repertorio di canti dell’emigrazione, delle lotte contadine e sociali. Le tecniche di declamazione sono molto simili a quelle del teatro carnevalesco siciliano; sono frequenti le mascherate in piazza, con veri e propri contrasti tra personaggi opposti. Queste tecniche sono state riprese dai cantastorie e montate in un nuovo progetto conoscitivo che si afferma a partire dal secondo decennio del Novecento.

Ovviamente il repertorio è cambiato molto da allora. All’epoca i cantastorie rappresentavano elementi di modernità nella cosiddetta cultura popolare; le storie cantate erano lunghe anche due ore e narravano soprattutto la biografia di un personaggio. Oggi invece, nonostante un cantastorie come Fortunato Sindoni canti Il contrasto tra il cristiano e il musulmano, Il contrasto tra il potente e il pescatore sulla spinosa questione del ponte sullo Stretto e Dorit & Hassan che esplora le contraddizioni del conflitto israeliano-palestinese – nel denso repertorio dei cantastorie prevalgono le ballate, brevi componimenti poetico-musicali più adatti ai dettami fulminei di oggi, con cui fatti della nostra cronaca vengono narrati e sottoposti a una pubblica riflessione di piazza. Dagli anni Settanta, con il fenomeno delfolk music revival, i cantastorie hanno riacquistato visibilità a livello nazionale. La pratica era quella di girare di piazza in piazza, con la macchina come palcoscenico ambulante: lì il cantastorie cantava arrampicato sul tetto, dopo aver magari preso appunti su quello che accadeva in paese. Artigiano della parola, la rende oggetto smerciabile anche dal punto di vista economico, con la vendita di nastri e cd. L’interesse per questa figura ibrida è recente, perché ancora venti anni fa i cantastorie erano considerati dall’accademia come dei “canzonettisti” della cultura popolare e se ne coglievano solo gli aspetti popolareschi: come dire Rugantino, e non il Pasquino.

L’intervento del cantastorie è invece – secondo Mauro Geraci, cantastorie ed antropologo – un «momento di riazzeramento morale. Il suo compito è quello di sollecitare il dubbio sulla versione ufficiale degli eventi, proporre un altro modo di leggere la storia e di straniare in senso brechtiano lo spettatore». Il cantastorie è insomma un cantore dell’esistente e non il rappresentante di un mondo in declino, da salvaguardare: più che la Baronessa di Carini – avverte ancora Geraci – il cantastorie interpreta piuttosto il mancato funerale di Welby o la guerra in Iraq o la condizione del lavoro in fabbrica. Le case dei cantastorie sono spesso dei laboratori dove si dipingono i cartelloni, si allestiscono le proiezioni di diapositive: il cantastorie rifugge in questo modo il cliché etnicista o del populista, lo stereotipo del testimone di una presunta cultura arcaica e incontaminata. D’altra parte il cantastorie affronta le storie degli altri tendendo a svestirsi della propria stessa identità, sforzandosi di essere voce di tutte le voci: con questo sentimento così poetava il grande Ignazio Buttitta nel celebre libro Io faccio il poeta: «Sugnu un ghiardinu di ciuri e mi sparto a tutti/ una cassa armonica e sòno pi tutti/ un agneddu smammatu e chianciu pi tutti agnelli smammati».

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Cantastorie – 01. Frammenti di una storia

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cantastorie1Discendente diretto dei menestrelli medioevali e dei musici ambulanti, che cantando portavano ovunque gli echi d’antiche gesta e incredibili prodigi, il Cantastorie è stato nel tempo una delle figure più vivaci della tradizione popolare.

Quest’ artista ambulante arrivava anche nei paesi più sperduti eseguendo un repertorio di cantiche tramandate dalla tradizione, oppure inventate e composte da lui stesso, sui temi e gli argomenti del momento.

Animava le feste popolari, s’insinuava nei balli, nelle cerimonie nuziali, nei battesimi e nelle cerimonie religiose. Nei secoli, il mestiere e l’arte dei Cantastorie, sono stati molto importanti per la diffusione d’una cultura omogenea, attraverso gli strati sociali dei diversi stati e delle diverse popolazioni della penisola italica.

Tutto sommato, l’unita d’Italia è storia recente.

Per secoli la nostra penisola è stata un caleidoscopio di piccoli stati con proprie leggi, monete e spesso con proprie culture.
La comprensione di questo fatto, permette di dare al Cantastorie un particolare rilievo, inserendolo nei vari eventi culturali che nel passare dei secoli. permisero la diffusione e lo sviluppo di una informazione culturale unitaria e quindi nazionale.

Evidentemente l’influsso del Cantastorie, non ebbe carattere politico ma semmai poetico; lui era il modesto e inconscio portatore d’una informazione culturale alla quale tutti, analfabeti inclusi, potevano accedere.

Era il propagatore e il campione della cultura orale, era una delle poche fonti di riferimento che aveva il popolo analfabeta per sapere ciò che accadeva altrove, e per altrove intendo ciò che accadeva fuori dalle mura della città, oltre l’orizzonte, in altri luoghi e altri mondi.

E il mondo a quei tempi doveva apparire davvero grande, misterioso e pieno di avvenimenti magici.[i] Il pubblico delle piazze che accorreva ad ascoltare le sue storie che spesso riguardavano anche avvenimenti politici, memorizzava facilmente le semplici rime che le componevano.

Grazie alla facile memorizzazione le storie potevano poi essere ripetute ad altra gente.

In questo modo le storie dei Cantastorie viaggiavano di bocca in bocca, si espandevano e penetravano fin dentro le case.
L’arte poetica dei Cantastorie, ha attraversato in modo orizzontale l’intera società.

Egli si esibiva ovunque potesse appoggiare la sua piccola panca (da qui anche il nome di Cantimpanca o Cantimbanco), e salito sopra questo minuscolo palcoscenico, spesso grande poco più dei suoi piedi, egli lanciava al pubblico, nobile, borghese, proletario che fosse, il suo canto e le sue storie.

BREVE GENEALOGIA

Passiamo ora all’albero genealogico dei Cantastorie, le cui radici credo antiche quanto la storia dell’uomo, così come credo che il desiderio di raccontare storie sia nato con l’uomo.

Innanzitutto dobbiamo tenere presente un dato importante: il Cantastorie è un artista di piazza. Questo significa che le sue origini, si mischiano con quelle di tutti gli altri artisti, che nel tempo hanno agito o si sono evoluti, partendo da quel particolare spazio sociale che è la piazza.

I dati storici comunemente accettati, fanno idealmente partire la storia degli artisti di piazza dall’epoca romana.

Dato questo presupposto, si può dire che il Cantastorie è un discendente naturale degli antichi Histriones, parola con la quale si denominavano gli attori romani.

Il termine Histriones sembrerebbe di origine latina; dico sembrerebbe perché Tito Livio (59 a.C.) nel volume VII delle Storie, sostiene che Histrio era parola di origine etrusca, indicante gli attori etruschi che nel 364 a.C. andavano a Roma per prendere parte ai ludi scenici e che, in gruppi o singoli, si esibivano in vari luoghi.

Solo in seguito diventò termine generale indicante anche gli attori romani.
Attraverso i tempi numerose sono le ramificazioni che si sviluppano da questo primo tronco, e che quindi interessano l’evoluzione dei Cantastorie.
Egli è anche l’erede della stirpe dei Giullari, un genere di musici – attori – buffoni, che allietarono piazze e castelli tra il 1200 e il 1300.

Questi cantavano, ballavano, suonavano, recitavano monologhi drammatizzati utilizzando travestimenti e maschere.

Alcuni giullari di aspetto deforme, come i gobbi e i nani, trovarono collocazione fissa nei palazzi dei nobili, diventando buffoni di corte.

Altri mantennero una propria indipendenza, agendo nelle piazze in occasione delle fiere e delle numerose feste, dove cantavano antiche leggende, storie amorose, scherzose e lascive.
Molto amati dal popolo, ebbero un periodo di grande trionfo, tanto da essere chiamati a recitare i loro monologhi anche dentro le chiese.
Ma furono poi bollati d’infamia da numerosi predicatori e paragonati al diavolo, a causa dei grotteschi travestimenti e delle maschere caricaturali.
Scomparsi i Giullari, nelle piazze trova spazio una generica folla di giocolieri, funamboli, ammaestratori, ciarlatani da fiera, suonatori e cantatori di cui le antiche cronache già attestano l’esistenza nei vari territori della penisola italica fin dal 540.

Altra ramificazione è quella dei Menestrelli che erano praticamente uomini di corte, veri e propri cortigiani che nella maggior parte dei casi operarono all’interno dei palazzi.
Questi era a diretto servizio del nobile che l’ospitava e del quale, nelle canzoni, esaltava le gesta e cantava la magnificenza; si occupava inoltre di allietare con musiche, danze figurate e canzoni d’amore, le feste di dame e cavalieri.

Un altro ramo molto rigoglioso e importante è quello dei Trovadori provenzali, che fuggiti dalla Francia per le numerose persecuzioni religiose in atto nella Provenza del 1200, trovarono nei piccoli stati italici – in particolare Bologna, Firenze e in Sicilia – nuova fortuna e impulso, tanto che la loro arte fiorì e si diffuse lungo tutta la penisola fin verso il 1400.

L’ arte e la cultura dei Trovatori influirono anche nello sviluppo di importanti generi poetici come lo Stilnovo.
Quest’ influsso lo si avverte nell’opera di grandi poeti del 1300, come Dante e Petrarca, nel Boccaccio delle rime, e nel 1400 nelle opere del Poliziano e Lorenzo il Magnifico.
I Trovatori, fecero conoscere in Italia anche il genere delle cantafavole di origine orientale e il canto epico/ narrativo, attraverso i quali in seguito si svilupparono in Italia diversi cicli di racconti:
il Ciclo Religioso, con storie elaborate dalla Bibbia,
il Ciclo Classico, con storie di origine greco – latina e con personaggi di derivazione omerica,
il Ciclo Bretone dedicato a Re Artù e i Cavalieri della Tavola Rotonda
il Ciclo Carolingio dedicato a Carlo Magno e alle Crociate,
da cui poi scaturì la Storia dei Paladini di Francia, le cui avventure ancora oggi sono narrate nei teatri di Pupi Siciliani.

Ma è nel tardo 1500 che tra i tanti artisti di piazza, si comincia a distinguere con precisione la figura dei Cantastorie.
Il suo tratto iconografico assume personalità e individualità tanto da diventare un artista a se stante ed è così che arriva fino al primo novecento, per diventare anche un nostro contemporaneo.

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