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Feste di Piedigrotta …

LE FESTE ESTIVE

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Le Piedigrotte

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LA PIEDIGROTTA DEL 1895
di Ferdinando Porcelli e Rosaria Maggio

La ricostruzione di una Piedigrotta ci offre l’opportunità di mostrare l’articolazione territoriale, economica, organizzativa di una festa che a partire dagli anni intorno al 1880 cominciò a cambiare fisionomia, trasformandosi dapprima in momento di diffusione delle canzoni che annualmente gli editori musicali rendevano pubbliche tramite giornali e riviste, quindi in un momento pubblicitario per merci e per nuovi modi di consumare, ed infine definì un nuovo uso del territorio, divenendo un momento in cui la città metteva in scena se stessa e quelle che voleva definire come le sue caratteristiche e potenzialità.
Il modello della Piedigrotta delle canzoni funzionò per l’ideazione delle Feste Estive che nel 1894, proprio l’anno precedente quello da noi prescelto, furono promosse e finanziate per la prima volta dall’Associazione Commercianti, sostenuta dalla stampa cittadina, in collaborazione con le autorità comunali e con il Banco di Napoli.
Le Feste Estive consistevano in un fitto programma di gare sportive, spettacoli, esposizioni, concerti, tornei che duravano da luglio a settembre per culminare nella annuale celebrazione della Piedigrotta. In quest’ambito gli stabilimenti balneari e quelli termo-minerali, i café-chantante i ritrovi più eleganti organizzavano speciali programmazioni di spettacoli; si predisponevano calendari di gite nel golfo; la Villa Nazionale, Piazza Plebiscito e la Galleria Umberto ospitavano quotidianamente concerti gratuiti; i comuni vesuviani preparavano i loro “trattenimenti e svaghi estivi”; la Società Nazionale delle Strade Ferrate e la Navigazione Generale d’Italia concedevano particolari agevolazioni per il prezzo e la durata dei biglietti dei viaggiatori diretti a Napoli.

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Anche la festa di Piedigrotta del 1895, dunque, si inscriveva nell’ambito delle Feste Estive che ne rappresentavano in qualche modo l’enfatizzazione e l’ampliamento. In questo secondo anno, le feste ebbero carattere di particolare ricchezza e il loro programma, oltre a essere diffuso come già l’anno precedente tramite quotidiani e periodici, fu oggetto di un opuscoletto particolarmente curato: la Guida Programma Ufficiale per le Feste Estive che – oltre a una breve sezione di letteratura amena – racchiudeva indicazioni utili come gli orari di treni e battelli da e per la città. In più, il Comitato Generale delle Feste Estive, di cui facevano parte eminenti personalità cittadine, letterati, musicisti, poeti, commercianti e industriali e che si avvaleva di sovvenzionamenti privati e comunali, aveva fatto pubblicare dall’editore Tocco un volume dal titolo Napoli. Storia, costume, igiene, clima, edilizia, risanamento, industria redatto anche da medici, igienisti, scienziati, in cui si elogiavano le attrattive climatiche, paesaggistiche, storiche e di costume della città. Le iniziative dell’estate 1895 furono innumerevoli: dalle esposizioni di prodotti agricoli e industriali, alla festa dei costumi popolari femminili; dalle gare pirotecniche che ricostruivano episodi della guerra tra Cina e Giappone in Piazza Plebiscito, alle regate di pescatori e battellieri del golfo (l); grande novità di quell’anno furono un chinetoscopio e sei fonografi Edison costantemente in funzione dalle 10 alle 23 in Galleria Umberto I (2). Il comitato aveva, inoltre, bandito una serie di concorsi, pratica comunemente adottata nella Napoli fine ottocentesca quando si voleva ottenere il risultato di adeguare pratiche diffuse a determinati standard. Per le manifestazioni piedigrottesche del 1895 – ad esempio – i concorsi per la migliore esposizione di frutta e il miglior chiosco alimentare garantirono almeno parzialmente la cura della scenografia e soprattutto il suo allineamento a canoni comunemente considerati desiderabili (3).

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Il 7 settembre avvenne la premiazione del concorso per la migliore esposizione di frutta. Il premio di 100 lire fu vinto dal Sig. Luigi Dario che aveva presentato una esposizione di frutti in cristallo, sbaragliando così la concorrenza del Villino artistico di frutta presentato da Giosuè Musella, delle Melanzane Olandesidi G. Avolio, de Una banca di fichi d’lndia di Giuseppe Fedele, de Un carro di frutta di Giuseppe Salierno, e Un Padulano (ortolano) tutto di frutta di Luigi Giuseppe Musella.
Inoltre, già dal 1° settembre – mentre tra di essi Zi’ Tore, il cantastorie, declamava il Rinaldo – si erano inaugurati in Villa, nel recinto destinato alle feste, i chioschi caratteristici napoletani, che vale la pena di enumerare – così come fece il Corriere di Napoli del 1 settembre – se altro per la suggestione di nomi e titoli:
- Osteria alla napoletana diretta da Don Vicienzo, ‘o cantiniere d”a chiazzetta ‘e puorto;
- Chiosco per la cottura dei maccheroni e fritto di pesce diretto da ‘a Mezanotte e l’Acquatriglia;
- Un chiosco per la vendita di frittelle fatte prontamente diretto da Giovanni, ‘o russo d”e naste;
- Un banco per la vendita di frutta, di patrone Bartolo Matarese;
- Un banco per la vendita di fichi d’India, di Raffaele Chiantiello e ‘Tore Palatino d”a marina;
- Un venditore di lumache in grande tenuta, di Giovanni ‘e puorto;
- Un banco per la vendita di gassosa, di Ferdinando Mitasci;
- Una venditrice di spighe, di Teresella d”e Lanzieri;
- Un ostricaro, di Pasquale ‘o ciciniello.
Nel recinto della Villa durante la settimana di Piedigrotta – dunque nuovi e diversi motivi di piacere si sommavano a quelli cui i napoletani erano già stati abituati durante tutta l’estate: il 4 settembre ebbero luogo i quadri viventi – Nerone che assiste all’incendio, Apollo e le nove muse e Un duello dopo il ballo, ispirato quest’ultimo a un quadro di Gerome – per la scenografia del conte Antonio Coppola. Oltre al diletto per gli spiriti raffinati costituito dai quadri viventi, si pensò anche allo svago per le anime semplici, rappresentato dagli alberi della cuccagna, eretti in Villa 1’8 settembre.
Ma Piedigrotta non sarebbe stata completa senza le sfilate. Nel 1895 se ne tennero tre: quella dei carri, quella dei giornalai e la grande fiaccolata dei Tre regni della natura e le grandi invenzioni.
La sfilata dei carri era organizzata anch’essa nella modalità del concorso. I carri sfilarono attraverso la città per due volte: nella mattinata e nella serata del 7 settembre su un percorso che partiva dal Museo Nazionale e, lungo via Toledo, raggiungeva Piazza Plebiscito, quindi Santa Lucia, il Chiatamone e infine il recinto delle feste della Villa, dove i figuranti e i musicisti dei carri replicarono per due volte le loro canzoni. I carri furono 19, le canzoni qualcuna in più perché – come ad esempio sul carro Café Chantant sul quale si cantarono Café Chantant e ‘A novità di Gabriele Marra – su alcuni carri si eseguirono più canzoni. Con 150 lire furono premiati (1° premio ex aequo) i carri Il voto (canzone ‘O Vuto di Federico Cozzolino e del M° Albin, eseguita dagli eccentrici del S. Carlino); I Molinari alla festa (canzone Friccecarella di Nicola Marfé e Carmine Marino); Cesta di fichi (canzone So’ d”o ciardino overo di Luigi Russo e Enrico Caino). Con il secondo premio ex aequo furono inoltre premiati i carri: Costumi napoletani, Carro Campestre, Corbeille, Pacchiani sul somaro.

Come si vede, in questa fase della festa la trasformazione del carro da mezzo di trasporto dei pacchiani dei casali e dei paesi limitrofi per il pellegrinaggio alla Madonna di Piedigrotta (quei carri su cui si cantavano le tammurriate e i canti ‘a ffigliola in onore della Vergine) in carro allegorico stava avvenendo abbastanza lentamente. Prevalevano, infatti, gli allestimenti facilmente ottenibili con modeste modifiche ai carri agricoli di tipo tradizionale: i Molinari alla festa, Cesta di fichi, Carro campestre, Pacchiani sul somaro citati, ma anche ‘A Vennegna ‘e Napule, ‘A Cesta, La Pagliara. La cavalcata dei giornalai – altra manifestazione tradizionale piedigrottesca che alcuni fanno risalire alle sfilate militari borboniche, di cui le cavalcate sarebbero l’evocazione – prese il via alle ore 21.00 del 7 settembre dalla porta delle scuderie del Museo Nazionale e percorse il medesimo itinerario dei carri. Seguita dai carri stessi, giunta in Villa attraversò il recinto delle feste, per poi percorrere la Riviera di Chiaia fino a Piedigrotta e rientrare nuovamente in Villa fra le 22,30 e l’una di notte. Il tema dell’anno fu La partenza dei tredici per la disfida di Barleffa. La sfilata era composta da 150 pedoni, 40 cavalieri e una fanfara composta da otto persone. Chiudeva la sfilata il carro dei giornalai. Ad attendere cavalcata e carri, una giuria formata, fra gli altri, da Salvatore Di Giacomo, Ferdinando Russo, Eduardo Matania, Enrico De Leva, Roberto Bracco.
Tutti i costumi erano forniti dalla ditta Falanga, le armature da Salvatore Giuliano (noto armiere teatrale), le attrezzature dalla ditta Tammaro Mangini e i cavalli della ditta Forgione. Le forze economiche e commerciali cittadine – oltre che procurare forza lavoro intellettuale e organizzativa, e sostegno economico alle iniziative – svolgevano un ruolo nella produzione della festa anche nella offerta gratuita di merci, costumi e attrezzature per le principali messe in scena.
Veniamo ora al grande evento del 1895, la Fiaccolata Fantasmagorica che aveva per oggetto I tre regni della natura e le grandi invenzioni, diretta ed eseguita dalla ditta Fantappié di Firenze, con pubblico spettacolo di illuminazione. L’itinerario di questa sfilata, cui partecipavano tra l’altro numerose bande musicali, si snodò attraverso circa 2 chilometri: da via Costantinopoli, al Museo e poi lungo via Toledo, piazza S. Ferdinando, via S. Carlo, via Medina, il Rettifilo, via Duomo, via Foria, piazza Cavour per fare ritorno finalmente al punto di partenza. Questa sorta di Ballo Excelsior da strada – in un’epoca di grandi innovazioni tecnologiche e di enormi attese per il futuro – mescolava fiori, frutti, animali, minerali in tutte le loro varietà, razze, classificazioni con orologi, bussole, treni, piroscafi, aerostati, telefoni, telescopi, macchine fotografiche ed elettriche. Il tutto riprodotto su grandi trasparenti illuminati a creare magici effetti di luci e di colori.
Ma gli eventi più attesi, quelli che si prevedevano più seguiti, erano naturalmente i concorsi delle canzoni: al solo concorso del Ciardino delle Feste, bandito dal Comitato per le Feste Estive, parteciparono oltre cento canzoni. Ma il numero delle canzoni che furono scritte quell’anno in città è senz’altro più imponente (4).
Concorsi di canzoni furono promossi dai giornali Napoli Musicale e Diavolo Rosso e dall’impresa del teatro Grande Esedra; vi fu un concorso Fiorillo (presumibilmente bandito dai proprietari del ristorante Ai Due Leoni in piazza Municipio), uno indetto dal Circolo Musicale Fenaroli (quest’ultimo – secondo il Roma del 6 settembre – patrocinato anche da Il Mattino); un concorso ebbe anche la casa editrice Pisano, il cui negozio di musica era in Via Toledo, e naturalmente vi fu quello che Bideri lanciò attraverso la sua rivista La Tavola Rotonda. Ricordi, invece, non bandì – né era sua abitudine – alcun concorso, limitandosi a presentare in più occasioni e in diversi luoghi la sua produzione per quell’anno: produzione già stampata in un elegante volumetto di soli testi, illustrato da Scoppetta e intitolato Chi chiagne, chi ride. Canzoni furono pubblicate inoltre su tutti i principali giornali quotidiani e periodici: dal Roma, all’Occhialetto, dal Don Marzio, al Fortunio, da 11 Mattino a Le Varietà. Canzoni vennero eseguite in vari giorni, diverse occasioni e in più luoghi. Il Giardino delle feste in Villa Nazionale il 5 e 6 settembre ospitò l’esecuzione delle circa venti canzoni selezionate dal concorso del Comitato per le Feste Estive; fra gli interpreti, Diego Giannini e Emilia Persico. In questo concorso l’editore Santojanni fu particolarmente favorito dalla sorte (e dalla giuria) e portò al successo tre sue canzoni – Ndringhete ndrà! di De Gregorio e Cinquegrana; Girulà di Califano e Nutile; ‘E Cataplaseme di Capurro e Di Chiara, tutte pubblicate da L’Occhialetto – che si aggiudicarono primo, secondo e terzo premio.

Al Gran Circo delle Varietà, al Chiatamone, il 1 settembre ebbe luogo il concerto del M Vincenzo Galassi, esecuzione delle canzoni di Piedigrotta delle edizioni Ricordi. I solisti furono Maria Masula, Nunziatina Lombardi, Raffaele De Rosa, Giuseppe Giusti. Furono eseguite canzoni di Vincenzo Valente, Mario Costa, Enrico De Leva; fra gli autori dei testi Salvatore Di Giacomo e Ferdinando Russo.
All’Eldorado- stabilimento balneare di giorno, ritrovo elegante di sera, inaugurato il 16 luglio 1894 a Santa Lucia di fronte a Castel dell’Ovo il 1 settembre ebbe luogo l’audizione delle canzoni del concorso de La Tavola Rotonda: fra gli interpreti Amelia Faraone, Emilia Persico, Nicola Maldacea, Ciccillo Mazzola. La canzone vincitrice fu Don Saverio di Vincenzo Valente e Pasquale Cinquegrana, nell’esecuzione di Nicola Maldacea. Altri premi furono assegnati a ‘O frate ‘e Rosa (ed. Santojanni) di E. Di Capua e P. Cinquegrana; Venezia benedetta! di G.B. De Curtis; I’ voglio bene a te di S. Gambardella e P. Cinquegrana; I’ só franco ‘e cerimonie di P. Guida, G.B. De Curtis; Cerasella di A. Califano e P. E. Fonzo; Crestina ‘e Mondragone di A. Mancini e P. Cinquegrana. Ma le esecuzioni di canzoni non si fermarono qui: al Teatro Sannazaro, in via Chiaia, il 4 settembre si svolsero le prove generali delle canzoni del concorso delle Feste Estive; sotto le finestre del Corriere di Napoli ebbe luogo il concerto-serenata ‘E bellezze ‘e Napule, diretto da Nicolò Evangelista; al Circolo Musicale Fenarolisi cantò Fatte vasà di Paolino Stefanile e A.F. Alfano; fra il 12 e il 16 senembre in Piazza Plebiscito e al Caffè Gambrinus si replicarono più volte le canzoni di Ricordi; il 26 settembre in Galleria Umberto 1°, al Caffè Starace (divenuto poi nel 1899 Caffè Calzona) quelle de La Tavola Rotonda.
La canzone era, dunque, il momento centrale delle festività piedigrottesche; tutto il complesso sistema editoriale, spettacolare, organizzativo, distributivo e di consumo che ad essa faceva capo – nel suo sforzo di utilizzare i linguaggi e le risorse cittadini in modo nuovo e per nuovi fini aveva provocato profondi cambiamenti nella festa tradizionale: erano nati nuovi riti, nuovi “pellegrinaggi”, nuove mete per le feste settembrine. Dai luoghi vicini alla chiesa della Madonna di Piedigrotta gli itinerari dei napoletani si erano spostati sulle nuove arterie aperte dal Risanamento e dalla colmata di Via Caracciolo, dove erano stati inaugurati teatri, caffè, caffè concerto, stabilimenti balneari modernamente concepiti e che rappresentavano ora i nuovi luoghi della festa; anche gli itinerari dei carri che si avviavano a diventare allegorici e delle sfilate toccavano i gangli fondamentali della “città nuova”. Ma la nuova organizzazione piedigrottesca non arricchì soltanto la festa di nuovi motivi e nuovi centri di attrazione: essa approfondì il divario fra attore e spettatore cominciando a sostituire lo spettacolo alla festa. Nello stesso tempo, man mano che l’importanza commerciale, turistica, economica di Piedigrotta cresceva – secondo un modello sicuramente sofisticato, che prevedeva l’uso sinergico delle risorse territoriali, del sistema dello spettacolo e di quello dell’informazione, del sistema commerciale, dei servizi, dei trasporti aumentava parallelamente l’interesse a mostrare il lato migliore della città, il più consono alle aspettative e che – dunque – era da un lato modellato su un immaginario consolidato che riguardava le vocazioni specifiche della città, ma dall’altro guardava anche alle nuove mitologie del lusso e del comfort.
Di conseguenza si accrebbero la complessità della festa, la sua articolazione e naturalmente aumentarono la specializzazione, la divisione del lavoro, la gerarchizzazione degli apparati e delle organizzazioni che presiedevano alla sua preparazione. E aumentò l’importanza economica della festa stessa, e non solo per i visitatori che essa portava a Napoli, o perché a partire dalla Piedigrotta gli editori musicali prendevano il via per “esportare” le loro canzoni anche nel resto d’Italia e del mondo. Carri, fuochi pirotecnici, sfilate, fiaccolate, palchi, pedane, chioschi, recinti nascevano dal lavoro di ideatori, organizzatori, finanziatori, architetti, scenografi, impresari, ma anche da quello di sarti, fuochisti, carpentieri, artigiani, decoratori; le canzoni erano il frutto della creatività di autori, musicisti, illustratori, dello spirito imprenditoriale degli editori, ma richiedevano l’impiego di compositori, tipografi, piegatori, spedizionieri: Piedigrotta era una grande occasione di lavoro – e richiedeva un’alta qualità di lavoro – per molte persone.

1 Notizie tratte dal Fortunio, 10 luglio 1895, 20 luglio 1895
2 Notizia tratta dalla Guida programma ufficiale delle Feste Estive, Napoli, Tocco, 1895.
3 Tutte le notizie del paragrafo sono tratte dal Fortunio, Don Marzio, Roma, Il Pungolo Parlamentare, Corriere di Napoli, Il Mattino, L’Occhialetto, La Tavola Rotonda dei giorni fra l’1 e il 15 settembre del 1895, confrontate e incrociate fra loro.
4 L’elenco riguarda solo le canzoni di cui si sono travati gli spartiti o quelle della cui esecuzione si è appresa la notizia tramite la consultazione dei giornali. Il numero delle canzoni effettivamente eseguite e satmpate potrebbe, dunque, essere più grande di quello indicato.

Tratto dal catalogo: Piedigrotta 1895-1995
Progetti Museali Editore, Roma 1995

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La Canzone Napoletana nei secoli…

La CANZONE NAPOLETANA ATTRAVERSO I SECOLI

Tratto da qui

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Non sarà, forse, del tutto superfluo ricordare che si è in molti ad affermare che, soltanto con la presenza della canzone napoletana nel contesto della produzione canora italiana, viene consentito di avviare un discorso sull’esistenza di una canzone nazionale, cioè con caratteri e moduli propri.
Al riguardo, poiché non è il caso di svolgere su queste pagine ragionamenti di tal fatta, mi sia consentito di commentare, sbrigativamente, che se promozione da cantata regionale a canto nazionale rappresentativo c’è stata, questa, la canzone napoletana se l’è guadagnata; dapprima lentamente e poi, negli anni a cavallo dei due secoli, velocemente e con clamore, in virtù di un’autonomia di mezzi espressivi insorgenti dalla possibilità, per la forma musicale, di mutuare direttamente dal dialetto proposte tematiche, sollecitazioni fantasiose, suggerimenti di immagini, abbandoni lirici.
In partenza non c’è, tanto per essere chiari, nessun diaframma fra testo e musica; il resto, ovviamente, appartenendo alla sensibilità di chi scrive o compone. Si può dire, con meditata valutazione, come alla radice della canzone napoletana, in quanto significazione di fatto artistico, ci sia davvero coerenza di linguaggio, parole e musica che alla fine diventano un’invenzione armonicamente unitaria, epperò di stampo originale.
Per la strutturazione e le risorse del dialetto da cui prende vita, la canzone napoletana ha, in embrione, la virtù di non essere mai generica ancorché – come tutti i componimenti del genere – in pochi versi. Non ci sono incongruenze verbali, sia che si parli di episodi sentimentali e poetici, sia che si adombri una dimensione psicologica, oppure si tratteggi una situazione comica o grottesca.
Le metafore sono genuine, le similitudini nitide, l
’eufemismo malizioso e l’ironia tagliente; una ricchezza di corde a petto dalla quale il compositore è pungolato nel suo estro migliore. Che io sappia, altrove, tanto più per la canzone in lingua, è compito alquanto ardimentoso giungere a formulare osservazioni analoghe. Una verifica, questa, che chiunque può fare, proponendo all’ascolto di un ignaro straniero, un gruppo di canzoni nostrane, tra cui una di Napoli, e, non necessariamente, ’O sole mio oppure Torna a Surriento. Ebbene, noterà che la canzone napoletana sarà riconosciuta subito, e chiaramente indicata nella sua provenienza, mentre le altre – gradevoli o meno, non ha importanza continueranno a conservare l’anonimato.
Insomma, tutto porterebbe a concludere – se il discorso potesse avere un seguito – che ha mille canne di ragione chi afferma che soltanto nella canzone napoletana è identificabile la nostra canzone nazionale.
Questa breve premessa, nelle mie intenzioni, dovrebbe apportare sostanza all’atto di fedeche ho manifestato a chiusura dell’avvertenza e conferire decoro ai ragguagli che mi accingo a dare intorno al «bel canto» di Napoli.
Quanto abbiano influito le civiltà greca e latina su Napoli, è riscontrabile nei frammenti di opere venuti alla luce attraverso secoli di pazienti e, spesso, avventurose ricerche. Nella maggioranza dei casi, abbiamo soltanto delle tracce, ma, tanto significative, da consentire illecito perseguimento della ricostruzione di sistematici ricordi storici.
I canti greci, d’amore o satirici, politici o religiosi, mandavano in visibilio aristocrazia e popolo, specialmente se inseriti in rappresentazioni teatrali; quelli romani non furono da meno, se ascoltandoli – come scrive il Polidoro – «Tito Livio e Virgilio si erano sempre commossi».
E Napoli li assorbì con tanta passione, questi canti, e tanti ne creò, da venir considerata la città più musicale della Campania e più di Roma stessa, cosicché nell’anno 63 d. C. Nerone Imperatore ritenne confacente alla sua dignità l’esibirsi davanti ai napoletani accompagnandosi con la cetra.
Di quei canti non si hanno più segni se non, forse, attraverso le voci dei venditori, qualche brano di arie popolari antiche e i «canti a figliola», le cui «fioriture e melismi vi richiamano al canto fermo».
Nel primo millennio dell’Era Cristiana, in tutta Italia, si cantava su testi latini, molti dei quali sono conservati nelle biblioteche d’Europa.
Erano divisi in due gruppi: quelli per persone altolocate e colte, che parlavano di battaglie, di regnanti, di avvenimenti; e quelli creati per il popolo, con sfondi diversi: l’amore, la satira, la lussuria, la licenza grossolana.

IL DUECENTO

Qui abbiamo i primi, convincenti segni della presenza della canzone napoletana. Trascuriamo pure quanto vien riportato ne’ cc Le cronache di Matteo Spinelli» a proposito del Re Manfredi che «la notte asceva per Barletta cantando strambotti et canzone», perché il riferimento, sebbene ripreso da quasi tutti gli storici della canzone napoletana, è stato oggetto, e lo è tuttora, di accesa polemica fra illustri scrittori impegnati vanamente ad accertarne o negarne l’autenticità.
E’ accettabile, invece, la versione secondo la quale, nei primi decenni del ‘200, mentre Federico Il radunava intorno a sé uomini d’ingegno e artisti, dalle balze del Vomero si levava un canto semplice, una invocazione, ricca di reminiscenze deistiche, all’astro che dà vita al giorno:

Jesce sole,  jesce sole,
nun te fà cchiù suspirà!
Siente mai ca li figliole
hanno tanto da prià?

E’ l’invocazione delle prosperose lavandaie di Antignano, osannanti la bellezza dell’Infinito ed il lavoro.
Ovviamente, i versi citati sono giunti a noi attraverso aggiornamenti cui hanno messo le mani chissà mai quante persone.

IL TRECENTO

Del ‘300, una testimonianza sull’esistenza della nostra canzone potrebbe essere quella che il Boccaccio dà nel «Decamerone», il «Filocolo», «Fiammetta» e le «Rime». Senonché, qualche studioso, giustamente si è chiesto di quali canzoni intendesse parlare il Boccaccio, cioè se in lingua oppure in dialetto.
Il grande novelliere fiorentino rievocando il suo lungo soggiornò a Napoli, dove si è innamorato della figliuola di Re Roberto incontrata per la prima volta nella Chiesa di S. Lorenzo, mostra il suo entusiasmo per la città e fa intravedere che da essa trae ispirazione per le sue opere. Qui, come è noto, scrive ad un suo amico persino una lettera scherzosa in dialetto napoletano. Nei suoi libri, infatti, parlerà del nostro mare, dei castelli, della reggia e rievocherà le canzoni ascoltate durante le gite nel golfo. Ma oltre le canzoni e un canto fanciullesco in dialetto ricordati dal Boccaccio, un certo numero di strofe e frammenti sono pervenuti a noi. I nomi dei loro autori, però sono rimasti avvolti nel mistero, mentre sono alquanto noti i nomi di alcuni degli autori dei componimenti in lingua.

IL QUATTROCENTO

Il ‘400 porta importanti innovazioni, anzi sconvolgimento, nella musica seria a Napoli e, per riflesso, anche nella canzone.
Intorno alla Corte Aragonese, per merito di Re Alfonso, rifiorivano le arti belle; dappertutto, in Italia, le Corti incoraggiano poeti e artisti. E quando, per volere di Alfonso, il dialetto fu elevato a lingua del Regno, strambotti, madrigali, ballate, frottole, sonetti, si cominciarono a scrivere in napoletano.
La frottola - canzone a ballo importata da altre regioni – era già in voga in tutta Italia, e qui da noi, nella seconda metà del quattrocento, sostituì la ballata, così come lo strambotto, anch’esso d’importazione, sostituì il
sonetto.
Il madrigale, noto in tutta la penisola sin dal secolo precedente, si trasformò, prese nuove forme per merito di musicisti colti, e continuò a trasformarsi fino a diventare un genere squisitamente aristocratico.
Nel 1458, Ferdinando d’Aragona, per dare maggiore impulso alla musica, invitò a Napoli un gruppo di maestri stranieri «d’altissimo pregio», fra cui il Tinctoris, l’Ykart, il Garnerius; il primo, oltre a pubblicare importanti metodi musicali, fu Cappellano e maestro di Cappella in Castelnuovo; il secondo, fu cantore nella stessa Cappella dal 1480. Si fondò la prima scuola musicale e attraverso di essa la musica napoletana subì una radicale trasformazione. «L’influenza fiamminga – scrive il Prota-Giurleo – si riflette per conseguenza anche sulla musica vocale, che diventa polifonica, sempre più complessa e difficile; musica da signori; il popolo resta fedele alla monodia e continua a cantare nella sua lingua, come il cuore gli detta».
I musicisti classici ora si dedicano completamente al madrigale, ne compongono per tutte le occasioni, finché esso – a distanza di due secoli – non sfocerà nel melodramma.
I musicisti meno classici si dedicano, invece, a un genere nuovo: la villanella, che, a distanza di pochi anni, invaderà l’Italia e l’Europa.
Una trasformazione, questa, che se da una parte accende entusiasmi, dall’altra suscita, attraverso la voce di un anonimo autore di un
«gliuommero», rimpianti per le canzoni del tempo passato:

.  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .
quelle dance retonne
- et lo cantare
faceano allegrare
-
sta citate.

IL CINQUECENTO

Il ‘500 è un secolo d’oro per la canzone napoletana.
Sono gli ultimi guizzi di vita per la frottola e lo strambotto; è in gran voga il madrigale, allorché scoppia la passione per un nuovo genere di canzone: la villanella. Derivata da un ballo campestre, la nuova composizione entusiasmò dapprima il popolo; poi, man mano, entrò nelle case aristocratiche, interessò musicisti raffinati che, attraverso testi in lingua, la trattarono tecnicamente alla stregua del madrigale, badando molto all’armonia e usando senza eccezione lo stile polifonico. La villanella penetrò in tutte le regioni d’Italia, varcò i confini, e fu imitata e stampata ovunque con la definizione di villanella alla napoletana. Da allora, la nostra canzone dominò da sovrana e non ebbe che una sola rivale, sia pure con un dominio meno vasto: la canzone spagnola.
Una prova che la villanella fu conosciuta e apprezzata anche in Francia, ce la dà Benedetto Croce nei suoi «Aneddoti di varia letteratura
» - Vol. I. Nel capitolo «Isabella Villamarino» narrando alcuni episodi del nobile marito di questa dama napoletana, Ferrante Sanseverino, principe di Salerno, autore di poesie e canzoni, sia per i versi in italiano che per la musica, ch’ebbero molta fortuna in Italia, in Francia, e in Ispagna, rileva che il Principe nel 1544-45 in Fontainebleau «si era fatto ammirare dalle dame della corte come cantante» e pubblica un brano di rapporto dell’inviato fiorentino, il Vescovo di Forlì, Bernardo dei Medici, spedito a Cosimo I dei Medici, a Firenze, nel dicembre del 1544: « Ogni sera molte dame li fanno cantare delle canzoni napolitane et ci hanno indocte una quantità di chitarre et ogni dama ha la sua».
A Napoli, addirittura, non si cantavano che villanelle; nei salotti e nelle accademie, in forma polifonica, e cioè a due, a tre, a quattro voci, in coro; per le strade, le piazze, le rive, le osterie, con accompagnamento di strumenti vari, in forma monodica. E, specie in piazza Castello, i cantori richiamavano gran folla di appassionati.
Per il nostro golfo, comitive di gitanti in barche e feluche – zeppe di popolani le prime, ospitanti gentiluomini e gentildonne le seconde – usavano cantare le nuove villanelle, nelle ammalianti insenature di Posillipo.
Spesso allietavano le comitive complessi musicali e cantanti di professione, svolgendo un vero e proprio programma.
I poeti dialettali Giambattista Basile, Giulio Cesare Cortese, Sgruttendio, ed altri, hanno lasciato molti titoli o frammenti di versi di villanelle in voga nel ‘500; Giovan Battista Del Tufo, nel suo manoscritto «Ritratto di Napoli», recentemente pubblicato a cura di Calogero Tagliareni, ne elenca molte altre. Dobbiamo ritenere, secondo le sue citazioni, che a Napoli, alla sua epoca, erano popolarissime – fra quelle italiane e in dialetto – oltre trenta villanelle.
Alcuni titoli:
Parzonarella mia, parzonarella, Se vai all’acqua, chiammarne, commara, Tu si de Nola et io de Marigliano, Guarda de chi nie iette a nnarnmorare, Sciosceme ‘ncanno lo napulitano, Oh bella, bella, mename nu milo, O quanta sciore o quanta campanelle, Russo meiillo mio.
Grande importanza avevano le esibizioni di canto nelle feste di famiglia e nelle feste popolari, come quelle di San Giovanni a Mare e Santa Caterina a Formiello.
Particolarmente ricordevoli i festeggiamenti dedicati al mese di maggio, una celebrazione che si ispirava alle più antiche maggiolate fiorentine.
Al primo giorno del mese, davanti a tutte le porte di casa, sui balconi e sulle finestre, s’issava l’albero del «Maio». La festa aveva inizio all’alba con le mattinate, che gli innamorati, accompagnandosi con strumenti dell’epoca – cètole, tiorbe, calascioni – dedicavano alle loro amate. Per tutta la giornata, nelle abitazioni, e fuori, si consumavano i pranzetti più succulenti, annaffiati dai vinelli delle campagne. L’albero del «Maio» rimaneva al suo posto per tutto il mese durante il quale, tranne che per brevi pause, i napoletani gareggiavano in mattinate, serenate, balli, pranzi, cene, canzoni.
Fra i poeti napoletani, il freschissimo Velardiniello, autore della nota Voccuccia de no pierzeco apreturo, e, fra i compositori: Andrea Falconieri, Giovanni Del Giovane, Francesco Lambardi, Gian Domenico Montella, Antonio Scandello, Donato Antonio Spano, con le villanelle Chi la gagliarda, donne vo’ imparare, Vurria che fosse ciàola, Napolitani nun facite folla, Ssi suttanielle donne che portate, Lo pollice, ecc.
Molte delle villanelle nate a Napoli si stamparono anche a Venezia, Bologna, Roma in raccolte ben curate e contenenti sia i versi che la musica. Moltissimi i fogli volanti, stampati rozzamente dai tipografi napoletani, purtroppo andati distrutti.
Non posso essere d’accordo con Massimiliano Vajro, uno dei più preparati storici della nostra canzone nonché persuasivo commentatore di cose napoletane; non posso essere d’accordo con lui, e me lo perdoni il carissimo amico, allorché gli viene di affermare che la canzone napoletana va datata all’ottocento, «e solo in questo secolo poteva nascere». (M. Vajro – La Canzone Napoletana, Napoli, 1957).
Per dar maggior forza alla sua affermazione, il Vajro, con suggestivo contrappunto, nega che le villanelle possano aver generato la canzone napoletana per concludere che «…esse non vanno inserite se non per una piccola parte nello sviluppo della canzone napoletana». Perciò non approva la tesi del Monti nella quale si prospetta la se
guente identificazione: «Le vilianelle non sono altro che le canzoni di Napoli del Cinquecento e del Seicento, sono il nome specifico onde venivano chiamate le liriche popolari napoletane».
Identificazione propugnata, d’altronde, anche da Fausto Nicolini e Ulisse Prota-Giurleo. Vajro, invece, è più che mai convinto che soltanto nell’ ‘800 la canzone napoletana abbia trovato forma, esattamente con l’intervento di Salvatore Di Giacomo. Quando ci si attesta su queste posizioni, io ritengo che, sebbene non espressamente detto, si voglia mettere in dubbio la persistenza, nella canzone, di un sottofondo populistico che neppure al preziosismo stilistico del Di Giacomo fu dato di ignorare. Sono convinto che tra il canto popolare e la canzone, quale si strutturò nell’ ‘800, ci sia non dico una affinità, ma un’ accertabile consanguineità, perché unica è la matrice da cui ebbero vita.
Sono convinto e non lo sono solo io – che i canti popolari – per i quali esistono migliaia di monografie riguardanti tutte le regioni – non siano altro che antiche canzoni, regolarmente create da un poeta e un musicista, colti o incolti non ha importanza, o da rapsodi, menestrelli, improvvisatori, cantanti girovaghi, tramandati di generazione in generazione e giunti a noi, dalla bocca del popolo, ancorché manipolati, alterati, deformati. Ma in origine erano canzoni, forse strambotti, forse villanelle, forse canti ancora più antichi.
Non parlano di canzoni (siamo d’accordo che « canzone » è un nome generico, però da non intendersi nel senso proprio che ebbe in origine) cantate dai napoletani, di mattinate, di serenate del loro tempo, i cronisti e i diaristi del ‘300, ‘400, ‘500 e ‘600? Ma questo è un discorso che andrebbe troppo per le lunghe.

IL SEICENTO

Il ‘600 è il secolo dei melodramma. L’opera lirica, nata a Firenze nel Carnevale del 1597, rappresentata a Venezia per la prima volta nei 1637, fa capolino a Napoli nel 1651, in un teatrino fatto erigere, nel suo palazzo, per l’occasione, dal Viceré Conte d’Onatte.
Fa capolino proprio quando la villanella volge al termine. Infatti, era accaduto che, da semplice e spigliata ch’era all’origine, la villanella s’era andata complicando passando per le mani di compositori ligi al canone, che la vollero classicheggiante e in forma polifonica, in una versione molto apprezzata negli ambienti aristocratici e intellettuali, mentre le villanelle di stampo popolare continuavano ad essere monodiche. La contrapposizione contribuì all’affievolirsi dell’ispirazione, per cui se le villanelle aristocratiche andarono sempre più scadendo ivi un italiano approssimativo e stracco, quelle popolari furono intrappolate in un dialetto bastardo – tra lingua e parlata – per far sì che potessero essere capite, e quindi apprezzate, anche al di fuori di Napoli. A dar forza a questo guazzabuglio ci fu, inoltre, una sorta di suggestione collettiva secondo la quale tutti, indiscriminatamente, potevano scrivere villanelle. Perciò, improvvisazioni a non finire, con produzione enorme, è vero, ma musiche scialbe e testi insignificanti, se non scurrili. Ormai, la villanella poteva considerarsi tramontata e, con il suo tramonto, apriva un vuoto pauroso nella canzone napoletana.
Voci sporadiche come quelle di Giulio Cesare Cortese, Sgruttendio e dei girovaghi poeti e musicisti Sbruffapappa, Masto Roggiero ed altri, non bastano a risollevare le sorti della canzone, avvilita fino al punto da far scrivere a Giambattista Basile:

Sse canzune de musece de notte,
De poete moderne
- Nun toccano a lo bivo.
O bello tiempo antico - O canzune massicce,
O parole chiantute
O cunciette a doi sole,
O museca de truono -
Mo tu nun siente mai cosa de buono!

Che in traduzione, grosso modo, vuoi dire: Queste canzoni di poeti moderni, che suonano di notte, non toccano il vivo! O bei tempi antichi, o canzoni belle, con parole ben fatte e concetti robusti, o musica da fare sbalordire… Oggi, tu non senti mai una buona cosa!
Tuttavia, il segno di questo secolo è pur rimasto. Un canto isolato, è vero, ma di significato particolare per la storia della nostra canzone, si a per la novità della musica, sia perché, dopo oltre tre secoli, ancora si ascolta, con diletto. E’ la celebre Michelemmà (Michela è mia!), attribuita a quel genio bizzarro e proteiforme che fu Salvator Rosa, nata dopo la rivoluzione di Masaniello.
Ritiene qualcuno ch’egli vi abbia messo solo qualche nota della sua estrosa chitarra e qualche rima della sua accesa fantasia. Ma e meglio lasciar le cose come stanno, tanto più perché, a parer mio, quell’imperativo Michela è mia! a sarebbe proprio del temperamento ardente e tempestoso del pittore celebre e consono ai suoi atteggiamenti guascovi.
Altre canzoni, come si è detto, furono scritte, oltre che da improvvisatori e girovaghi, da poeti dialettali che ben si possono definire i padri della nostra letteratura popolare: Giulio Cesare Cortese, Sgruttendio, Giambattista Basile.
Nonostante tutto, Napoli continuava a concedersi canti e letizia, se si deve dar credito a dei versi della metà del ‘600 già pubblicati da Sebastiano Di Massa nella sua «Storia della Canzone napoletana
» e ricavati da un «Contrasto curioso tra Venezia e Napoli» (Ed. Salani, 1879).

A Napoli non c’è malinconia
si passa tutti i giorni in balli e canti;
di giorno e notte c’è sempre allegria
con Zanni, Pasquarielli e commedianti.
Le mie dame con pompa e bizzarrìa
son corteggiate dai suoi fidi amanti,
quando vanno a Posillipo l’estate,
con dolci suoni e dolci serenate.

IL SETTECENTO

Nel secolo degli abatini cincischiati e dei poeti che si compiacevano ancora – sia pure in modo minore – nel manierismo spesso barocco e vuoto del precedente seicento, i teatri sono affollatissimi. Fiorisce la musica, fiorisce la commedia dialettale, furoreggia Pulcinella. Si rinnova e si trasforma (1707) il teatro de’ Fiorentini, si apre al pubblico il teatro Nuovo (1724) e s’inaugura il primo San Carlino. Il teatro San Bartolomeo viene abbattuto per la costruzione di un altro teatro lirico più bello e più moderno voluto dal Re Carlo III, il San Carlo (1737); si ricostruisce il San Carlino, il secondo, destinato alla gloria della maschera napoletana, si inaugura il teatro del Fondo (oggi Mercadante) e una diecina di anni dopo il San Ferdinando (1790).
Intanto, nell’ottobre del 1709, nasceva l’Opera buffa, e con essa, s’apriva un degno rifugio alla canzone napoletana; era una delle più belle occasioni perché potesse riprendere a battere le ali.
L’Opera buffa, che può vantare i nomi di Cimarosa, Paisiello, Pergolesi, Leo, Vinci, Fioravanti, Jommelli, Piccinni, e, tra i poeti, Giambattista Lorenzi, il Cerlone (che sforna ben 56 copioni), Federico, Trinchera, Palomba; l’Opera buffa, che annovera capolavori dal titolo: Lu frato nnammurato, Il matrimonio segreto, Il Socrate immaginario, sin dal suo nascere trattò soggetti e ambienti popolari. Le scene e le parti cantate, che all’inizio erano completamente in dialetto napoletano, a distanza di tredici anni, nel 1722, divennero una mistione di lingua e parlata con l’introduzione di personaggi quali baroni, duchi, contesse, ecc. Ovviamente, cambia anche l’ambientazione.
La canzone napoletana, dall’opera buffa, trasse nuova e fertile vita: duettini, marinaresche, arie amorose, cavatine, minuetti scritti per quelle scene diventarono le canzoni del popolo e dei salotti aristocratici. Spesso avveniva che una canzone popolare antica, elaborata o trasformata dagli autori delle opere per essere inserita nei loro spartiti, ritornava in voga. La villanella Vurria che fosse ciàola, del ‘500, è stata elaborata, o musicata, chissà per quante volte e s è cantata per trecento anni!
Numerosissime le canzoni tratte da opere buffe, come si può osservare attraverso le pubblicazioni dedicate a questo genere di musica e, per tutte, la ponderosa monografia di Michele Scherillo, «L’opera buffa».
Tra le più note canzoni del ‘700, non appartenenti a lavori teatrali: La canzone di Zeza e ‘O guarracino, una bellissima tarantella, quest’ultima, cantata ancora oggi, ma pervenute a noi, purtroppo, senza i nomi degli autori.
I canti politici che già nei passati secoli avevano sottolineato tanti avvenimenti, rifiorirono verso la fine del ‘700 con le rivoluzioni, le guerre e i martiri del ‘99, per sfociare, nella metà del secolo successivo, nei più accesi canti patriottici inneggianti all’Unità.

L’OTTOCENTO

Anche a Napoli, i segni premonitori di nuovi tempi diventano sempre più visibili; gli spiriti sono inquieti, le coscienze disorientate. Si chiede di rinunciare a tante cose del passato che sono un po’ come la loro pelle, sebbene tanto martoriata, per tanti napoletani; si propongono modelli di vita d’importazione, si agitano problemi sonnecchianti sotto la coltre dei secoli.
Gli eventi precipitano, le opposte fazioni si scontrano sanguinosamente. Napoli smette di essere la città vagheggiata da Goethe per trasformarsi in un campo aperto alla crudeltà, alla ferocia. Eppure, tra il continuo altalenarsi di speranze e delusioni, trova ancora linfa per cantare sul filo di un estro che, qualche decennio più tardi, conoscerà il punto più alto del suo splendore.
I canti politici, anche in questo secolo, si diffondono anonimamente, utilizzando vecchi motivi o inventandone dei nuovi; la satira serpeggia anche negli ambienti vicini alla Corona, non risparmiando neppure il re e la regina.
Né la musica buffa, che aveva avuto il suo massimo splendore nel settecento, conosce stasi, perché i musicisti, seguendo egregiamente le orme dei predecessori, continuano a comporre opere degne di elogio.
Scrivono versi di canzoni don Giulio Genoino, Marco D’Arienzo, Domenico Bolognese, Michelangelo Tancredi, Michele Zezza, Ernesto Del Preite, Mariano Paolella, Achille De Lauzières, affiancati da musicisti dai nomi altisonanti, o modesti: i fratelli Ricci, Saverio Mercadante, Gaetano Donizetti, Pietro Labriola, Luigi Biscardi, Francesco Florimo, Acton, Coen, ed altri.
La canzone napoletana, invece, superato alla mcv peggio il primo quarto di secolo, ha un continuo susseguirsi di alti e bassi. In questo periodo fa spicco il nome di un musicista geniale e attivissimo: Guglielmo Cottrau, un francese venuto in Italia, col padre, al seguito di Giuseppe Bonaparte e che non seppe più lasciare le ridenti zone partenopee, innamorato com’era di Napoli.
Nel 1825 il Cottrau prese a dedicarsi ai nostri canti popolari e ne raccolse un’infinità. Si deve a lui, quindi, se tante gemme della nostra canzone sono arrivate fino a noi. Tutti gli ambienti si appassionarono a quei canti rimaneggiati e pubblicati a centinaia dal Cottrau. D’altronde, intorno a quegli anni, canzoni originali se ne scrivevano pochine.
Nel 1889, scoppia, come un bengala iridescente, uno dei più popolari successi della canzone napoletana di tutti i tempi: Te voglio bene assai, dell’ottico Sacco (vedi), cantata da tutta Napoli, e fuori, per oltre trent’anni. Un successo pieno, completo, persistente fino al punto da rendere noiosa la canzone con l’avvio che diede a diecine di imitazioni, risposte, parodie, trascrizioni.
Tre anni prima, nel 1836, c’era stato un altro grosso successo: Lu cucchiere d’affitto. Ma da Lu cucchiere - escludendo Te voglio bene assai - occorre aspettare dieci anni (1846) per registrare un’altra popolarissima canzone, che fu lo spasso dell’intera città: quella Don Cicculo a la fan farra, che ispirò commedie, un romanzo ch’è un fumetto ante litterarn, (il primo che si conosca, e non soltanto fra quelli stampati a Napoli), parodie e le solite innumerevoli risposte.
Nello stesso anno si distingue per la sua grazia insolita e la buona fattura dei versi: Lu prunìno ammore di Luciano Faraone, musicata da quattro o cinque compositori, tra noti ed ignoti. Altri successi furono – per parlare dei più significativi – la famosa Santa Lucia (Sul mare luccica) - del figliuolo di Guglielmo Cottrau – del 1848; Lo cardillo (1849), Li capille de Carolina (1850), Luisella (1856), Dimme na vota si (1858).
Nel settembre del 1860, Garibaldi è a Napoli. Palazzo Angri, dalla augusta linea architettonica, ospita il Generale. Il popolo esulta, la regina del Mediterraneo è finalmente nelle braccia della madre Patria, un’onda di entusiasmo pervade la penisola tutta.
E i canti s’intensificano, l’arte guarda a cieli più grandi, si snoda ormai senza ceppi. Le canzoni, anche se, per la maggior parte, qualitativamente inferiori alle precedenti, non si contano. Napoli, però, continua a cantare quelle degli anni passati, a preferire i canti raccolti dal Cottrau e dal Florimo. Qualche canzone accettabile fino al 1870; poi, nel decennio successivo, musiche fiacche, degne dei versi scialbi, prosaici e volgari che le accompagnavano e che venivano stampati, come sempre, su migliaia di fogli volanti. E dire che a Napoli, il numero degli editori interessati alla canzone, era più che considerevole.
Nel 1880, la canzone, per merito di un musicista raffinato e già noto per le sue romanze, subisce una svolta decisiva. Luigi Denza, con la collaborazione del giornalista Peppino Turco, compone Funiculì-funiculà, che per la sua scoppiettante musica e la semplicità dei versi, passa di bocca in bocca, di città in città, di nazione in nazione, invadendo tutti i continenti e facendo gemere di continuo i torchi dell’Editore Ricordi che in pochi mesi deve stampare, per far fronte alle richieste, centinaia di migliaia di edizioni per pianoforte.
La canzone farà scrivere, qualche anno più tardi, a Giuseppe Errico: «Funiculì-funiculà si può storicamente considerare l’avanguardia delle canzoni napoletane moderne, come quella che ha aperta ed indicata la via a tutte le altre. Con Funicuiì-funiculà la canzone napoletana ha trovato la sua nuova forma in fatto di snellezza, di agilità, di movimento e di espressione».
Da qui prendono l’abbrivo musicisti che saranno l’orgoglio della canzone napoletana: Vincenzo Valente (già in attività al 1870), Mario Costa (1882), Eduardo Di Capua (1884), Giuseppe De Gregorio (1890), Salvatore Gambardella (1893), per non citare gli altri.
Ma c’è un più grande avvenimento da segnalare: nel 1882, comincia a farsi sentire la voce più limpida di Napoli: è Salvatore Di Giacomo, un albero che darà frutti deliziosissimi, fiori dai più teneri, dolci profumi, bellezze non intraviste mai, alla nostra poesia e alla canzone.
Con Di Giacomo altri poeti esemplari, s’affacciano al nuovo orizzonte. Il dinamico, vulcanico Ferdinando Russo – il più napoletano e sensibile poeta nostro – che ci ha lasciato montagne di poemetti, poesie e canzoni, fonti di immagini e ricchezza di parlata schiettissima; l’introspettivo e sfortunato Giovanni Capurro, l’esuberante Pasquale Cinquegrana, e altri ancora.
La canzone si perfeziona, si fa più bella; prospera.
I caffè fanno a gara per trasformarsi in sale e salette di trattenimento: una piccola pedana, un pianoforte, pochi strumenti, due o tre cantanti; ed è così che vediamo nascere i «caffè-chantants». Napoli, appunto negli ultimi due decenni dell’ ‘800, raggiunse il suo massimo splendore nell’arte, nella poesia e, per naturale riflesso, nella canzone che fu lanciata da Santojanni, Bideri, Izzo, Ricordi, con tatto, perizia ed abilità, quest’ultima aggiornata ai tempi che correvano. Si stamparono belle edizioni illustrate da autentici artisti e si organizzarono concorsi, spettacoli e audizioni.
I cantanti pullulavano e il pubblico chiedeva di ascoltarli, senza pause.
La canzone napoletana viveva la sua più bella stagione.

IL NOVECENTO

Il nuovo secolo, trova la canzone napoletana che domina nei teatri della città. Le Piedigrotte, che negli anni addietro venivano presentate soltanto nelle mattinate, invadono i teatri stessi con regolari spettacoli serali e dominano nei varietà che fanno a gara nel diventare sempre più lussuosi e attraenti, nel disputarsi vedettes internazionali. Sbocciano cantanti che vengono richiesti in tutta Italia ed alrestero. Emilia Persico, Carmen Marini, Elvira Donnarumma, Gennaro Pasquariello, Diego Giannini, Nicola Maldacea, Peppino Villani, Armando Gill, mandano in estasi le platee della penisola.
I poeti si susseguono senza soluzione di continuità; varianti e innovazioni sono apportate da Libero Bovio, Ernesto Murolo, Rocco Galdieri, Eduardo Nicolardi, E. A. Mario che, oltre per i versi, va citato anche per le musiche le quali, al loro apparire, costituirono una fresca novità. Musiche prodigiose sono composte da Ernesto De Curtis, Rodolfo Falvo, Nicola Valente, Evemero Nardella, Pasquale Fonzo, Giuseppe Capolongo, Enrico Cannio, Ernesto Tagliaferri, Gaetano Lama, Emanuele Nutile.
Un numero enorme di canzoni si devono a questi autori, e a tanti altri; e tutte improntate a dignità artistica che promuoveva lusinghieri apprezzamenti.
Certamente, come in tutti i tempi, anche in quel periodo aureo ci furono degli intrusi, degli squallidi epigoni che non fecero certo onore alla canzone di Napoli. Il tempo, però, è stato galantuomo con tutti
Qui, volendo attenermi a quanto si riferisce in giro, dovrei far punto perché, secondo gli assunti diffusi, la canzone napoletana sarebbe finita verso il 1938 e cioè con Na sera ‘e maggio di Gigi Pisano e Giuseppe Cioffi, che ben si possono definire gli eredi più diretti dei primi, autentici nostri autori. Ma io, scevro da qualsiasi intenzione polemica, mi domando com’è possibile procedere a tal funerea fissazione di data se, successivamente, abbiamo avuto – provo a buttare giù qualche titolo – Luna rossa, Anema e core, Munastero ‘e Santa Chiara, Scalinatella, Scapricciatiello, Serenatella sciuè-sciuè, Guaglione. Qualche titolo soltanto, ripeto, perché tanti altri fanno ressa nei miei ricordi.
Invece accetto senz’altro l’opinione di coloro che ritengono, nell’attuale momento, la canzone napoletana in piena crisi. Una crisi, però, che non mi pare autorizzi, per la sua stessa natura, ad intonare il de pro fundis, poiché non è da escludere che debba essere più propriamente riguardata come una fase di transizione, cioè uno stadio in cui la nostra canzone cerca succhi e fermenti nuovi che le diano diritto alla sopravvivenza.
Del resto, a Napoli, tutti gli orizzonti artistici sono nebulosi e quel poco di cielo azzurro che ti sembra di intravedere, non sai mai se e veramente azzurro oppure ti sembra tale per un fenomeno di… daltonismo.
Diciamo, allora, che Napoli è percorsa da quella che a molti piace definire come febbre di crescenza. Aspettiamo che la febbre passi, che la convalescenza sia superata, e chissà che non ritroveremo, con Napoli tutta, la nostra canzone più agghindata che mai.

Ettore de Mura – Enciclopedia della Canzone Napoletana
Casa Editrice
IL TORCHIO, Napoli 1969

LA CANZONE NAPOLETANA
NELLE SUE MANIFESTAZIONI

CANZONI A BALLO

Il ballo è sempre stato, sin dai tempi più remoti, nella coscienza di tutte le popolazioni, indipendentemente dal loro grado di civiltà. Ricordava avvenimenti, concorreva a celebrare riti religiosi, s’introduceva nei cerimoniali funebri e nelle pratiche degli stregoni. In genere era accompagnato, oltre che dagli strumenti in uso, dal canto. Napoli seguì la sorte comune a tutti gli altri popoli, e fino ai ’700, le canzoni a ballo ebbero la preponderanza sugli altri canti. Anzi, parecchie canzoni, secondo notizie che diventano sempre meno vaghe a partire dai ’400, prendevano addirittura il nome dai nuovi balli.

LA BALLATA, che vuoi significare proprio «aria da cantare ballando», pur diventando, nel 1300, per merito dei poeti toscani, un componimento dotto e aristocratico in Italia, come in Francia e nella Spagna, continuò ad essere popolarissima a Napoli, fino al ’600. Lasciando da parte lo strambotto, che spesso integrò ballate e canzoni a ballo, e trascurando nomi di balli di poca importanza, si elencano, qui di seguito, quelli che ebbero maggiori rapporti con la canzone napoletana:

LA VILLANELLA – Nata a Napoli verso la fine del ’400, da un ballo campestre – come è stato scritto nelle precedenti pagine – ebbe vita fino al ’700.

LA CHIARANTANA – Già nota agli inizi del ’400, fu diffusissima a Roma e a Firenze nel secolo successivo. Nello stesso periodo fu nota a Napoli.

LA CATUBBA – Ballo napoletano, (alcuni lo dicono proveniente dalla Turchia), impiantato sull’imitazione dell’andatura degli ubriachi, nato verso la fine dei ’500, fu uno dei più comuni fino a tutto il ’600. Il delizioso poeta napoletano Filippo Sgruttendio scrisse alcune poesie per catubbe, pubblicate nel suo canzoniere «La tiorba a taccone».

Lo TORNIELLO – Ballo in giro, sorta di girotondo. Noto in mezza Europa e in Italia, dai toscani fu chiamato Carola. Diffuso nel Medio Evo, si voleva che fosse nato in Francia, anche se oggi è provato trattarsi di un antico canto popolare inglese. A Napoli si ballò specialmente nel ’500 e nel ’600.

Figurazione del Ballo Lo Torniello. Disegno di Callot, dalle Oeuvres – Ediz. 1701

LA CASCARDA – Fu nota in tutta la penisola e si ballò (in tempo 3/4 e 3/8) anche a Napoli, nel ’500 e nel ’600. Bartolomeo Zito, nel commento al poema napoletano di G. C. Cortese, elenca dodici titoli di canzoni a tempo di Gascarda, fra cui: Serenella, Gunto dell’uorco, Roggiero vattuto, Io vao cercanno e nen nne saccio nova, Guarda de chi me jette a nnammorare.

BALLO DI SFESSANIA O LA LUCIA – (Dal quale derivò anche La Ntrezzata o L’Imperticata, una sorta di danza delle spade, che si svolgeva agitando dei bastoni inghirlandati di fiori). Trattasi di danza figurata e molto movimentata, formata da numerose coppie. Jacopo Callot (1592-1635) la illustrò in una serie di deliziosi disegni pubblicati nel 1620. Secondo il Del Tufo, fu importata da Malta. A Napoli, con le sue varianti, fu nota verso la metà del ’500 e la sua popolarità aumentò col passare degli anni, per diminuire nella seconda metà del ’600, finché non sfociò nel più celebre e affascinante ballo napoletano di tutti i tempi. La Tarantella, (vedi).
Versi di Ntrezzate e Lucie si possono leggere nel succitato Canzoniere di Filippo Sgruttendio, ma anche altri poeti e musicisti si cimentarono in questo genere.

LA GAGLIARDA – Proveniente dalla campagna romana, fu in voga in tutta Italia e in Europa. Dall’inizio dei ’500 ebbe vita fino alla metà del secolo successivo e si unì alle più apprezzate danze delle case principesche e reali. Il suo ritmo, vivace, era di 3/2. Una gagliarda a forma di villanella fu musicata da Baldassarre Donato (Chi la gagliarda, donne vo’ imparare – Venite a noi che siamo mastri fini), e pubblicata a Venezia nel 1558. Ma, prima ancora, nel 1541, era stata musicata e pubblicata da Giovan Domenico Del Giovane.

LA CIACCONA – A parte l’importanza che ebbe nel campo della composizione musicale classica italiana e straniera, la ciaccona fu conosciuta a Napoli come ballo licenzioso, importato dalle prime compagnie teatrali spagnole, verso il 1620. Purificata dai maestri di ballo napoletani, conquistò rapidamente i giovani napoletani e fu ballata fino alla metà del ’700. Le canzoni a tempo di ciaccona, che fu anche volta al maschile, il Ciccone, furono abbondanti, e moltissime se ne trovano nelle opere buffe del ’700. Solamente la Tarantella poté far dimenticare a Napoli questo ballo.

IL ROGGIERO – Doveva essere una delle tante musiche a ballo create dal girovago Masto Roggiero «rapsodo della canzone» e autore di arie e villanelle. Il Roggiero si cominciò a ballare a Napoli sulla fine del ’500 e resistette fino al primo ventennio del ’700.

LA TARANTELLA – Nel ’700, con la comparsa della Tarantella, i napoletani abbandonarono quasi del tutto gli altri balli per riversarsi, entusiasti, sul nuovo ritmo. La Tarantella, nata nella seconda metà del ’600 dalla Sfessania, dalla Ntrezzata e da altre ancora (vedi pagine precedenti), col suo tempo indiavolato, 3/8 o 6/8, con le sue figurazioni di corteggiamento e conquista, si presentava, infatti, come una delle danze più attraenti. Nelle campagne, sulle spiagge, sulle terrazze di Posillipo, nelle piazze, nelle bettole, a suon di nacchere e tamburelli, – quando non intervenivano altri strumenti come la chitarra, di gran moda, clarinetti o flauti – non si ballava che la Tarantella. Bastava un gruppo di ballerini di tarantella per attirare folla e forestieri. Diverse diecine di scrittori stranieri l’hanno descritta nei loro libri, in diari e corrispondenze, e parecchi musicisti classici si ispirarono ad essa per comporre musiche sullo stesso ritmo, da Auber a Chopin, da Liszt a Mendelssohn, da Rossini a Bellini, da Donizetti a Ricci, autore quest’ultimo, di una delle più celebri tarantelle, inserita – ballata e cantata – nell’opera buffa Piedigrotta. Di canzoni a tempo di tarantella si è parlato, e ancora se ne parlerà, per l’abbondanza delle composizioni avutesi nell’ ’800 ed oltre, fino ai tempi nostri. Aggiungo, per chi ne volesse sapere di più, che è di pochi anni fa, 1963, la pubblicazione di un bei saggio – davvero esauriente – di Renato Penna, sulle origini e le vicende della tarantella. Per la prima volta si congettura come essa possa risalire al tempo della corte aragonese, cioè al 1450.

Nei ’600, e maggiormente nel ’700, le ragazze del popolo impazzivano per il ballo, tanto da far dire al poeta Velardino Bottone nella sua commedia Lo Barone de Trocchia, musicata da Leonardo Vinci e rappresentata al Fiorentini nel gennaio del 1721: Non c’è fegliola a Napoli -che non saccia de museca e d’abballo (Non v’è ragazza a Napoli che non sappia di musica e di ballo). Si ballava, oltre la Tarantella, il Minuetto – d’origine francese e apprezzato dalle case blasonate – la Controdanza e la Gavotta, arrivate a noi sulla eco dei successi inglesi. In conseguenza, i “maste abballature” (i maestri di ballo) che nel ’500 formavano soltanto un piccolo gruppo, divennero tanto numerosi da avvertire la necessità di inserirsi nelle corporazioni di cui già facevano parte musicisti, cantanti, girovaghi e simili, tutti beneficiati da regolamenti che prevedevano soccorsi per disoccupazione, malattie, invalidità, maritaggi per le figliuole, sepolture. Qualcosa di più, come si vede, dei moderni istituti di assistenza. Canzoni per argomenti sacri, con musiche appropriate, esistevano da anni; ma, essendo diventato, di fatto, ‘indispensabile il ballo nella vita dei napoletani del ’700, alcuni ecclesiastici credettero opportuno di scrivere canzoncine religiose sui motivi dei ballabili più in voga. Ho il piacere di possedere un raro libriccino riportante alcune di coteste canzoncine, stampato nel 1744 da Giovanni Di Simone: «Canzoni nuove, divote, belle – Secondo i suoni della chitarra, e sì d’ogni altro strumento – dedicate – a’ valenti sonatori – da un Fedel di Gesucristo”. Nella prefazione, “il Fedel di Gesucristo” racconta che “udendo suoni e canti d’un gran valente maestro sonator di chitarra, il quale fu da un buon amico a lui recato per sollazzarlo; i canti udendo, lasciamo stare senza forma di metro, di rime, laidi assai per la materia sporca, scandalosi a concupiscenza svegliare infocare… ” si convinse dell’utilità di adattare canzoni spirituali ai ritmi in voga, sì che, pur soddisfacendo al desiderio di ballare dei giovani, avrebbero, però, evitato di portare nocumento alla salute delle loro anime. Anzi, lui stesso ne scrisse e ne stampò. Fra le tante, figurano: Della potenza del Padre Eterno (al suono nominato della tarantella), Dell’Incarnazione di Gesucristo e morte (al suono di Roggiero), A Nostra Signora (adattabile al suono della Siciliana), A Nostra Donna Dolorata (al suono flebile simile al Roggiero), e via di seguito. E non si commenta, perché, indubbiamente, nel “Fedel di Gesucristo” c’era una perfetta buona fede! Compreso quel peccatuccio di presunzione commesso nel definire «belle» quelle sue canzoni.

Ed ora non dispiacerà, credo, che io qui inserisca un accenno alle «quadriglie» di Carnevale ed ai «Cartelli», che non erano altro se non carri allegorici, come quelli che si sono sempre visti alla festa di Piedigrotta, e programmi (cartelli) con poesie, o canzoni, presentati separatamente da categorie di piccoli commercianti o artigiani. Non hanno nulla a che vedere con le canzoni a ballo, è vero, ma con esse costituiscono pur sempre un interessante segno del costume dell’epoca. Verso la fine del ’600, a Napoli, con l’inizio del Carnevale, si usava intonare canti carnascialeschi ed allestire feste di cuccagna. Setajuoli, armieri, carrozzieri, berrettieri, macellai, e numerose altre associazioni di arti, mestieri e venditori, si organizzavano per dar vita alle manifestazioni note col nome di «quadriglie delle arti». I vari gruppi erano composti esclusivamente da uomini mascherati e indossanti vesti fantasiosamente strane; così acconciati, i gruppi si esibivano in balletti dinanzi al viceré, alla viceregina, ad alti dignitari e nobili, mentre i popolani, che tutt’intorno facevano corona, applaudivano o schernivano, a seconda degli umori. Dopo di che, i carri allegorici (quadriglie), percorso che avevano per intero la via Toledo, raggiungevano il largo di Palazzo per sostare proprio sotto il balcone donde si affacciava il viceré. Qui si cantavano le canzoni che ciascun gruppo aveva fatto comporre per l’occasione, appunto per magnificare la propria attività e far risaltare i propri prodotti che ne erano oggetto. Alla fine, i carri, traboccanti di ogni specie di commestibili (pani, prosciutti, capretti, salcicce, polli, formaggi e altro), venivano abbandonati al saccheggio della plebe che muoveva all’assalto tra violenze di. ogni sorta. Lo spettacolo era orrendo e gli effetti disastrosi: urla, pugni, calci, contusi, feriti, e del carro, compresi i buòi o i cavalli, non rimaneva nemmeno l’ombra. Le «quadriglie “, le troviamo ancora in voga verso la metà del ’700, senza, però, la selvaggia usanza della “cuccagna”. Cavalcate e carri allegorici continuavano a reclamizzare merci e prodotti, bottegai e commercianti; ciascun raggruppamento, con un esaltante manifesto, annunciava la propria esibizione, ne illustrava lo svolgimento e pubblicava la canzone, o la poesia, scritta di proposito. Il notaio Trinchera e Giacomo Antonio Palmieri, furono tra i più fecondi autori di poesie (come si è detto, si chiamavano ” cartelli “) per “quadriglie”, insieme con altri che sono rimasti sconosciuti. Alcuni titoli di chiara indicazione: Li padulane, Li panettiere, Li casadduoglie, Li maccarunare, Li canteniere, Li ciardeniere, Li pisciavinnole, Li chianchiere, e via di seguito. In altre pagine, se ne pubblica qualcuna.

La Tarantella, nel 1800, anziché tediare come tutte le cose che si ingurgitano in abbondanza, mantenne costante, anzi, accrebbe l’entusiasmo che aveva suscitato fino allora. Proclamata «ballo nazionale» nello scorcio del secolo precedente, continuò a interessare popolani, salotti eleganti, forestieri, scrittori, musicisti. Si formarono troupes di tarantella che al suono di nacchere e tamburelli nonché degli strumenti più di moda – violini, mandolini e chitarre – portarono la napoletanissima danza in giro per l’Italia e all’estero, comprese la Russia e l’America. Molte canzoni furono musicate su quel ritmo; tutti i compositori, dal primo all’ultimo, ne furono suggestionati. Tra gli altri: Labriola, Biscardi, Florimo, Cottrau, Acton. Ad essi seguirono quelli della nuova leva: Costa, con i versi deliziosi del Di Giacomo; Vincenzo Valente, Di Capua, Di Chiara, Gambardella, e, nel primo quarto del ’900, Nicola Valente, Cannio, Falvo, Tagliaferri, E. A. Mario e tanti, tanti fino ai giorni nostri.

VALZER ED ALTRE. Non mancarono, sin dai primi anni dell’ ’800, canzoni a Valzer, un ballo che, nato in Austria nella metà del ’700, non tardò ad invadere tutta l’Europa. Il suo tempo, 3/4, e il movimento variato – lento allegro e allegretto – ancora oggi ingentilisce un certo tipo di canzoni nostre. Neppure il tempo dei 2/4 della polka – danza nata in Boemia – passo inosservato ai nostri canzonieri (Cannio, nel secondo decennio del ’900, su testi spassosissimi fornitigli dal Capurro, di polke ne compose parecchie). Una canzone di Salvatore Di Giacomo e Vincenzo Valente, nel 1917 (Tango napulitano), sottolinea la popolarità del Tango in Italia, arrivato dal Messico una diecina d’anni prima. L’esempio era stato preceduto, e fu seguito, da altri poeti e musicisti. E occorre proprio dire che tutti i balli degli ultimi tempi: Fox, Shirnrny, Charleston, Rok n’roll, Beguine, Cha cha cha, hanno alimentato motivi di canzoni napoletane?

Vediamo, adesso, della nostra canzone, gli altri suoi generi e alcune sue manifestazioni:

MELODIA

E’ il genere più comune. Non ha una forma precisa, non ha tempo obbligato e non sfocia mai nell’allegro sfrenato. E’ la composizione più espressiva – com’è intesa universalmente e sin dagli antichi tempi – capace di suscitare nell’ascoltatore vibrazioni romantiche e commozione. E’ vicina alla romanza da camera, da cui, qualche volta, ha tratto anche ispirazione, ma è a carattere più popolare.

SERENATA

Trovò i primi accenti sui liuti dei trovatori e dei giullari in pieno medioevo. Le più dolci serenate le ebbero Firenze e Venezia. Sempre suonata di sera, sotto il balcone della fanciulla amata, siccome dettava la consuetudine, anche a Napoli ha espresso i più comuni trasporti d’amore, compreso il dispetto. Prevalentemente sentimentale, il suo ritmo è basato sul tempo 3/4 o 2/4; qualche volta, per soggetti allegri, è stato usato il tempo cS~ (tagliato). La canzone napoletana vanta gioielli di “canzoni a serenata”, e basterà citare: Maria, Marì del Di Capua, Scetate di Costa e Voce ‘e notte del De Curtis. MATTINATA E’ un componimento simile alla serenata, solo che, anziché di sera, o di notte, veniva cantato all’alba, per svegliare le ragazze, con una dichiarazione d’amore. Canzoni ispirate alla Mattinata sono state scritte fino ad oggi. Fra quelle antiche si ricordano: Primmamatina di Falvo (1912) e Buongiorno a Maria di E. A. Mario (1916).

Serenate e Mattinate, erano in gran voga a Napoli, sin dai primi anni del ’200, ed erano tanto frequenti da generare fastidio. Nel 1221, l’Imperatore Federico Il, per le tante istanze pervenutegli dai napoletani che protestavano contro i cantori – ed erano parecchi – che all’alba turbavano il loro sonno con canzoni d’amore, o dispettose, con un apposito bando vietò le Mattinate. Ma gli innamorati non si dovettero dare per vinti se un’altra ordinanza del 1335, di Roberto D’Angiò, che rinnovava il divieto, provocò l’arresto del notaio Jacovello Fusco perché faceva di continuo cantare ” mattinate ” sotto la finestra di una certa Giovannella De Gennaro, donna maritata ed onesta; la quale donna, restia all’insistente corte del Fusco, s’era rivolta al re perché offesa ed esasperata dalle canzoni triviali che le dedicava il notaio. Al genere delle Serenate si possono assegnare anche le Ciambellarie e le Macriate, che hanno avuto vita dal ’500 fino ai primi del ’700. Don Pietro di Toledo, fra i tanti meriti che ebbe durante il suo viceregno, represse innumerevoli abusi che si commettevano nella città; fra i tanti, verso la metà del ’500, quello delle Ciambellarie. Per dare l’idea di che cosa fossero queste deplorevoli manifestazioni riporto testualmente quanto scrive il Giannone (Storia civile del Regno di Napoli, Ediz. 1723 – Vol. IV -pag. 49): “Era si introdotto costume in Napoli che quando le donne vedove si rimaritavano, s’univan le brigate, e la notte con suoni villani, e canti ingiuriosi, andavano sotto le finestre degli sposi a cantar mille spropositi ed oscenità; e questi suoni e canti chiamavano Ciambellarie; donde ne sortivano molte risse, e talora omicidi; e sovente gli sposi per non sentirsi queste baje, si componevano con denaro, o altra cosa colle brigate, perché se n’andassero”. Di qualche secolo dopo furono le Macriate, consistenti in un oltraggio portato a quei mariti che, essendo stati traditi, meritavano, secondo un pregiudizio largamente diffuso, derisione. Di notte, si riuniva una comitiva di musici e cantanti che, fermatasi sotto le finestre del disgraziato, narrava, a suon di musica, le disavventure della coppia; il tutto, rinforzato da contumelie e invettive. Questo malcostume, è da notare, si propagò anche fra la nobiltà: infatti giovani blasonati spesso si servirono di Macriate per offendere la donna che li aveva respinti o abbandonati, non tralasciando di far cadere il loro livore anche sui mariti, narrando in musica atroci verità, ma, più sovente, soltanto delle malignità. Nella notte di San Martino, protettore dei mariti.., sfortunati, le Macriate si decuplicavano. Le leggi del vicereame, benché ritenute ferree per le severe pene che assegnavano a chi era arrestato per tale reato, nulla poterono contro questa incivilissima usanza.

BARCAROLA

Canzone ispirata al mare e in generale, alle donne dei marinai e dei pescatori. La sua musica è suadente, ha un tempo di 6/8 o 12/8 ed imita il movimento cullante di una barca. Sono degli ultimi anni del ’700 le prime barcarole napoletane, almeno quelle che si possono con sicurezza definire tali. Nell’ ’800 abbondarono, e alcune di esse ancora famose oggi, come la Santa Lucia di Cottrau, ‘A sirena di V. Valente, Luna nova di Costa, ‘O marenariello di Gambardella, fino alle più moderne Ncopp’a ll’onne di Fassone e Piscatore ‘e Pusilleco di Tagliaferri. Uno dei più geniali autori di barcarole fu il M° Gaetano Lama.

MANDOLINATA

Ha il tempo della Serenata, ma è scritta prevalentemente per essere accompagnata da mandolini o da strumenti che riescono a produrre ugual trillo.

CANZONE A MARCIA

Il suo tempo ritmico è il 2/4 o il 4/4, più raramente il 6/8. Sin dai tempi antichi ha regolato il passo dei soldati. La canzone napoletana l’ha adottato per quei soggetti a carattere militaresco anche se, i protagonisti, soffusi come spesso sono, di nostalgia per la donna amata e per il paese lontano, di marziale hanno ben poco. Anche i temi a carattere patriottico sono stati trattati dai nostri musicisti, con lo stesso ritmo. Uno dei compositori di maggiore spicco, nel genere di canzone a marcia, è stato, nel primo quarto del nostro secolo, il M° Enrico Cannio; per tutte, valga la bellissima ‘O surdato nnammurato.

LA MACCHIETTA

S’inquadra nel genere comico, ove sentimenti e atteggiamenti sono presentati di volta in volta, con spunti umoristici, satirici, ridicoli, ironici, grotteschi, arguti e scherzosi. Il suo scopo è di provocare il riso, od almeno un sorriso. La tnacchietta mette in primo piano un tipo, cerca il più possibile di ritrarne, deformandoli, i lati apparentemente comici, così come il vero artista della matita da un solo tratto caratteristico della figura che ha preso in oggetto, ricava una ben riuscita caricatura alterando, in piccolo o in grande, i punti che più sollecitamente lo hanno colpito. Nicola Maldacea, genuino asso della risata dal 1891, fu l’animatore, il numero uno del prestigioso “genere”. La musica della macchietta non ha un ritmo particolare perché la sua funzione è di far da sottofondo alla mimica del macchiettista. Sin dal ’600, la canzone napoletana ha avuto componimenti comici: Lo paglietta di Andrea Perrucci e Michelangelo Faggiolo; il ’700, tante ne trasse dalle opere buffe, e l’ ’800, come per tutti gli altri generi di canzoni, ne ebbe moltissime: Lo cucchiere d’affitto, Don Ciccillo a la Fan farra, Stò tanto ncuietato pe stu fatto, La melizia terretoriale, ecc. Ma qui, in verità, si tratta di canzoni buffe e non di macchiette vere e proprie. La macchietta si differisce molto dalla canzone buffa, che, si ricordi, rinvigorì le sue radici nella commedia musicale del ’700. Come ebbe origine la macchietta, l’apprenderemo dal suo ideatore: Ferdinando Russo, che ne parla in un articolo apparso su «La Tribuna» del 18 agosto 1925, dal titolo «Piedigrotta di oggi».

Or sono molti anni, dall’inizio della sua carriera di dicitore, Nicola Maldacea canticchiava con singolare espressione, le canzoni del tempo, Lariuld, Oilì-Oilà ed altre; ma non tutte, per mancanza quasi assoluta d’un volume – e direi meglio: d’un volumetto – di voce, poteva egli rendere con quella mirabile efficacia che lo ha fatto diventare celebre. Le canzoni, sia pure bene scelte e adattate alla vostra piccola voce, non sono per voi, gli dicevo una sera, dopo il suo debutto, che fu nondimeno una rivelazione, al «Salone Margherita», voi avete bisogno di un repertorio speciale, fatto di cose che non siano la vera e propria canzone. – E gli spiegai in che cosa consistesse questo repertorio; e per la prima volta gli parlai della macchietta. La macchietta era, per me che l’avevo ideata, una canzonetta appena cantata e un po’ sussurrata, che serbando tutto il carattere napoletano, doveva delineare tipi, non sospirare d’amore; e questi tipi, curiosi, comici, o grotteschi, dovevano essere scrupolosamente interpretati. Maldacea questo poteva farlo prodigiosamente. Ed avrebbe così dato un nuovo genere di composizione, più importante della canzone perché di contenuto psicologico, e appena bisognevole di un tenue commento musicale che non superasse il suono della voce, sì da lasciare emergere, in tutta la espressione più efficace e sostanziale, la qualità singolare del dicitore, cioè la incarnazione, presentata al pubblico, di un tipo della vita. – E chi me le farebbe queste macchiette? – Io. Così sorsero le primissime macchiette: L’Elegante, Pozzo fa ‘o prevete?, Il Cantastorie, Il Madro, Il Pompiere del teatro, Il Cicerone e tante altre. E il nuovo genere fu subito imitato perché accolto ed accettato, come una rivelazione, con entusiasmo indimenticabile. E durò un bel pezzo; poi, caduto in mano dei soliti guastamestieri, si andò deformando, senza logica, fino a degenerare in isconcezze e volgarità che non avevano alcuna ragione di essere. La macchietta, dopo il suo periodo d’oro, come avverte il caro Don Ferdinando, decadde verso il ’20, per riprendersi, trasformata e aggiornata, alcuni anni più tardi, quando il maestro Giuseppe Cioffi e Gigi Pisano, non disdegnando di rimetter su questo componimento spassoso, ottennero clamorosi successi con Ciccio Formaggio, Datemi Elisabetta, L’hai voluto te!, Mazza, Pezza e Pizzo, ecc. E Nino Taranto, che ancora oggi ne è l’interprete, può considerarsi l’erede ed il continuatore di Nicola Maldacea.

CANZONE DI GIACCA

Già in voga verso la fine del secolo scorso con soggetti che esprimevano desideri di libertà dei carcerati, atteggiamenti spavaldi di guappi, si consolidò nei primi anni del nostro secolo con soggetti di cronaca nera. Prese il nome di “canzone di giacca” perché il cantante, smesso il frak indossato per cantare gentili melodie, si ripresentava al pubblico in giacca e con un fazzoletto annodato alla gola, per apparire vero figlio del popolo. Un abbigliamento, insomma, che gli permetteva di interpretare con maggiore naturalezza una canzone di contenuto drammatico o guappesco, e sfociante, quasi sempre, in un’azione violenta, in un progettato, o consumato, delitto. La musica, che aderiva al testo ora con slancio impetuoso, ora con sottolineature passionali, non ebbe nessun modulo particolare sebbene da più di un compositore venisse usato il tempo 4/4. Molti autori si cimentarono in questo genere, anche il Di Giacomo con Tarantella scura. Ma il vero creatore della canzone di giacca fu Libero Bovio. Le tre parti della canzone di Bovio erano congegnate con tecnica sorprendente, tanto da apparire come la sintesi di un dramma in tre atti. Ne scrissero anche E. A. Mario, Francesco Fiore, ed altri. Fra i tanti interpreti della canzone di giacca, i più efficaci furono Gennaro Pasquariello e Mario Mari.

CANZONE SCENEGGIATA

E’ un lavoro teatrale il cui soggetto è stato tratto da una canzone. Già nell’ ’800, al San Carlino, l’Altavilla scriveva commedie sfruttando, a volte, il titolo di una canzone di successo, sicuro di richiamare pubblico. A sta fenesta affacciate!, Te voglio bene assaie, Don Ciccillo a la Fanfarra, fecero parte del suo repertorio. Eduardo Scarpetta, nel 1898, utilizzò un titolo del Di Giacomo: ‘E tre terature, per una sua nuova commedia. Maldacea, la Faraone ed altri comici, al Salone Margherita, nell’ultimo decennio del secolo, interpretarono scenette che prendevano lo spunto e il titolo da canzoni di successo. Ma la sua vita migliore, la canzone sceneggiata la visse tra il 1920 e l’ultimo dopo guerra. Una compagnia formata dal comico Salvatore Cafiero (vedi) e dall’attore Eugenio Fumo, portò ai sette cieli questo genere che, curato nei minimi particolari, richiamava uno strabocchevole pubblico ogni qualvolta il lavoro portava il titolo di una canzone cantata e ricantata. Per la cronaca, si deve dire che, precedentemente, sebbene in una formazione più ridotta, c’era già stata una compagnia di sceneggiate: quella animata dai cantanti Mimì Maggio, Roberto Ciaramella e Silvia Coruzzolo.

TAMMURRIATA

Canzone allegra in cui il tamburo, agitato dalla cantante, diventa protagonista, fra tutti gli altri strumenti accompagnatori. Anche le canzoni campagnole, purché abbiano ritmo, possono far parte delle cc tammurriate “. Bellissima la Tammurriata palazzola di Russo e Falvo, quelle scritte da E. A. Mario, da Tammurriatella (versi di Furnò) a Tammurriata all’antica (versi di Murolo) e Tammurriata nera (versi di Nicolardi); quella di Tagliaferri: Tammurriata d’autunno, e tante altre.

CANZONI DI PRIMAVERA

Le canzoni dedicate a quella ch’è considerata come la più bella tra le stagioni, ebbero un grande sviluppo nell’ultimo decennio del secolo scorso. Le musiche tenui, flautate, d’un allegretto piacevole e insinuante, avevano, in un certo senso, il carattere delle antiche pastorali.
E come ogni anno, di Piedigrotta, le case editrici bandivano concorsi, pubblicavano novità, organizzavano audizioni, così, a partire dalla fine dell’ ’800, quando il calendario segnava il 21 marzo, le stesse case facevano altrettanto per lanciare le canzoni di primavera, quasi si trattasse di una seconda Piedigrotta. La consuetudine durò per oltre trent’anni; poi si diradò e, infine, fu del tutto abbandonata. Uno dei più dotati compositori di canzoni primaverili e campagnole fu Giuseppe Capo-longo. (E’ Primmavera, Fronn’ ‘e cerase, Ammore ncampagna).

Non mi pare sia il caso di parlare, in queste note, anche perché gli argomenti richiederebbero particolari svolgimenti, dei Canti di malavita e dei Canti a figliola (appartenenti più al folklore che alla canzone); delle Canzoni religiose (scritte, come si è già accennato, in tutte le epoche e meritevoli di un discorso approfondito); dei Canti e delle Canzoni politiche (in massima parte di anonimi, specie quelle che riguardano le rivoluzioni del 1799 e 1848); delle Canzoni occasionali (scritte per avvenimenti importanti: la prima ferrovia, la prima funicolare, la ferrovia Cumana, l’invenzione della luce elettrica, della bicicletta, il variare della moda, ecc.). Né, ritengo, sia il caso di dar conto delle Parodie e del Duetto, due generi di canzoni che si spiegano da soli. Non mi resta, quindi, che parlare, sia pure fugacemente, della più importante festa napotana, “la festa delle feste”, come dicono i suoi amatori, e che ha tanti legami con la can zone: la Piedigrotta.

LA FESTA DI PIEDIGROTTA

Lasciando da parte documenti e leggende che desumano la festa di Piedigrotta sia la continuazione purificata di feste pagane e baccanali; trascurando le testimonianze del Petrarca e del Boccaccio che videro affollare l’allora piccolo tempio dedicato alla Madonna di Piedigrotta dai marinai della spiaggia di Mergellina, si può, con ragionevole certèzza, ritenere che il culto dei napoletani per la Grande Madre nella ricorrenza della Sua natività, sia cominciato verso la metà del ’409. Già prima, nel Santuario, ingrandito e abbellito più volte, si erano recati spesso sovrani, principi e ministri a pregare per grazie ricevute, ma le visite ufficiali dei regnanti ebbero inizio più tardi. “E’ probabile – scrive il Volpicella – che sin dal 1528 incominciasse l’usanza della visita reale o vicereale, e la rivista militare che l’accompagnava”. E le parate più o meno sfarzose, con carrozze e abbigliamenti eleganti dei nobili, sfilate di soldati, bande, fuochi d’artificio, navi che sparavano a salve, fiumane di popolo provenienti da tutte le città del Regno, durarono fino al 1861. Giuseppe Garibaldi – entrato in città -partecipò alla festa. L’anno successivo vi prese parte il Generale Enrico Cialdini. E fu tutto! I resoconti degli avvenimenti piedigrotteschi di oltre cinque secoli, sono sparsi in diari, guide e gazzette, e sono anche leggibili nel voluminoso e ben ordinato archivio della Basilica. E le canzoni? Scarse notizie. Si sa che durante il fanatismo per la tarantella, gruppi di popolani, nella notte della festa, ballavano nella grotta di Piedigrotta illuminata con torce, e nei viali della villa reale aperta al pubblico per l’occasione; e che, prima o dopo il ballo, si cantavano canzoni in voga. E’ dalla nascita di Te voglio bene assaie, (1839), che si comincia a parlare di «Canzoni di Piedigrotta» .

Impropriamente, devo soggiungere, perché durante la festa non è che si intonassero canti nuovi di trinca, bensì canzoni che, già conosciute in altre circostanze e ambienti, soltanto in un secondo momento erano diventate, per la loro orecchiabilità, patrimonio dei popolani, di quei popolani che, durante la notte del 7 settembre, aspettavano l’apertura del Santuario di Piedigrotta, alternando canzoni a vino e cibarie. La tradizione canora e festaiola s’interruppe nel 1861; fu ripresa qualche anno dopo, nel 1876, per iniziativa di un distributore di giornali, certo Luigi Capuozzo. I Sovrani, e le loro truppe, non partecipano più alla nostra festa? Ebbene, li sostituiremo con sovrani e truppe finte, si dovette dire il Capuozzo. Senza frapporre indugi, radunò gli amici strilloni, e organizzò quella che doveva essere la prima cavalcata storica di Piedigrotta. Poi ricomparvero i carri allegorici, si riprese a cantare canzoni scritte su misura per esaltare, questa volta, gli aspetti più folkloristici della festa o per richiamare l’attenzione sulla validità del soggetto del carro. In comune con le «quadriglie» di fine ’600, non restava che la propensione ad una gran scalmana da ricordare per tutto l’anno, scalmana nella quale la rapinosa conclusione di un tempo, era sostituita dal più modesto assalto a «ruoti» di melenzane di casalinga provenienza. La vera Piedigrotta delle canzoni la si può far coincidere con la nascita del caffè-concerto, allorché, in quelle sale, si prese l’abitudine di presentare piccoli gruppi di nuove composizioni nei pomeriggi, o sere, del 7, 8 e 9 settembre. Dal 1891, facendo valere una tradizione che, sebbene verde di anni, era ormai entrata nel costume dell’intera città, la Piedigrotta delle canzoni venne presentata nelle più importanti sale teatrali, di mattina, sempre nei medesimi giorni, e poi in normali spettacoli serali, tra agosto e settembre. Il seguito, è storia che abbiamo vissuto noi stessi.

Ettore de Mura – Enciclopedia della Canzone Napoletana
Casa Editrice
IL TORCHIO, Napoli 1969


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Creuza – 1984

Cominciamo ad arare il campo:)

CREUZA de MA – 1984
Uno dei solchi l’ha tracciato indelebilmente questo LP, che a quasi trent’anni dalla sua uscita resta un punto cardinale.

La storia di Creuza può essere un buon punto di partenza? Di arrivo? No, un punto di un viaggio….io sono assolutamente erede di Omero, di MagnaGrecia e il Mediterraneo è il Nostro (appartenenza, origine, traccia…). Indico il punto video in cui Faber descrive quanto abbiano centralità le Radici…i Solchi appunto:) Non potrei, nemmeno volendo, spiegarlo meglio:):)

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