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Cunto de li cunti – P.Barra (1996)

Lo Cunto de li cunti
di Giovan Battista Basile
Intervista a P.Barra – Intervista al
regista G.Rocca
Vardiello-Gatta
Cenerentola-Faccia Capra-Petrusinella
I sette palombelli-Le sette
cotenne-Sapia Liccarda-La papara
Cunti letti e interpretati da P.Barra
, con la regia di G. Rocca (1996)

Pantagruel-RaiRadio3-Estate2013

 

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Il Cafè Gambrinus …

LOCALI STORICI

Tratto da qui
- antichi ritrovi -

Il bar è di antica origine. Dalla Turchia si estese a Napoli per la particolare abitudine della consumazione del caffè diffusosi col regime spagnolo. Il primo bar fu proprio il “Caffè”, dove persone di cultura amavano raccogliersi per degustare tale bevanda e intrattenersi in argomenti letterari.
A Napoli, dal 1700 al 1800, videro la luce più di cento “Caffè” tra i quali si segnalarono per la loro importanza: il Diodati, il Fortuna, il S. Apostoli, il Caffè dei Tribunali (sempre pieno di avvocati), il Bar Starace (meta di Antonio Petito), il Caffè Vacca (in Villa comunale), il Caffè d’Italia (in via Toledo, che annoverava tra i suoi clienti Francesco Mastriani). Ma il caffè per antonomasia fu il Gambrinus (1850), ubicato all’angolo di via Chiaia, tra la nuova e la vecchia Napoli: la poetica e l’industriale. Affrescato per la maggior parte da Caprile, accolse famosi personaggi politici come Crispi, Nicotera, Bonchi, Labriola, Miraglia e l’élite napoletana dei Filangieri, Zerbo, Salazar, Schilizzi, Sirignano, Colonna, Caracciolo, Pignatelli e del Balzo, nonché artisti e poeti da Di Giacomo a Serao, Dalbono, Gemito, Murolo, Bovio, Michetti, Russo, Bracco, D’Annunzio. Nei locali del Gambrinus nacquero celebri canzoni tra le quali “A Vucchella” di Gabriele D’Annunzio e Paolo Tosti.
Altri “Caffè” importanti furono il Torgiani, il Donzelli, l’Uccello in via Duomo; l’Aceniello a Porta San Gennaro; il Turco in Piazza del Plebiscito; il Bisesti in zona Ferrovia; il Pietruccio in via Pignasecca, che funzionavano anche di notte. Oggi la città è piena di bar e tutti preparano un’ottima tazza di caffè.

tratto da: Aldo De Gioia, Frammenti di Napoli
RCE Edizioni srl, Napoli 2000

Caffè Gambrinus


Piazza Trieste e Trento
Napoli

Intorno agli anni 1860, sulla piazza Plebiscito, là dove una volta c’era stato un grande bazar, si apriva il “Gran Caffè”. rinomatissimo e frequentato da personaggi illustri ed esponenti cospicui del bel mondo cittadino. Al ritrovo si accedeva attraverso numerosi ingressi, tanto che veniva indicato anche come Caffè delle sette porte.
1 suoi locali erano al piano terra del palazzo della Foresteria, una massiccia costruzione del 1816, attualmente sede della Prefettura, a due passi da Palazzo Reale.
Lo splendore del Gran Caffè, siccome una donna che va avanti negli anni, non durò, però, a lungo; nel 1885, infatti, ci fu la conclusione della sua pur brillante vita. Morto il re, viva il re, è il caso di dire; perché trascorsi che furono cinque anni, le sue sale si spalancarono all’ammirazione dei napoletani, e forestieri, in una rinnovata, più vivida magnificenza.
Era accaduto che don Mariano Vacca, proprie­tario del Caffè d’Europa, all’angolo di via Chiaia, uomo avveduto e personaggio popolare per la domestichezza che aveva con artisti e attori, avendo tratto in fitto i locali e avendoli affidati al gusto e alla perizia dell’architetto Antonio Curri, fosse riuscito a dare a Napoli un nuovo e più importante luogo di convegno, com’erano da considerarsi in quel tempo i caffè. Nelle sale erano comparsi pastelli che erano onorati dalle firme di Volpe, Irolli, Caprile, Casciaro, Pratella, Postiglione; paesaggi ed altre opere dovuti a Migliaro, Scoppetta, Campriani, Diodati, Esposito, D’Agostino, Chiarolanza, Capone, Ragione, Palumbo. C’erano i marmi di Jenny e Fiore, gli stucchi del Bocchetta, i bassorilievi del Cepparulo e le tappezzerie del Porcelli. Insomma, una piccola galleria d’arte. L’inaugurazione avvenne il 3 novembre 1890, in uno sfavillio di luci giacché – altro tocco di interesse – l’illuminazione era stata ottenuta con l’impiego di energia elettrica. Nell’insegna, spiccava il nome del favoloso re, inventore della birra. Si leggeva, infatti, “Birreria Caffè Gambrinus”, in cui c’era il suggerimento di un felice matrimonio tra due famose bevande: l’una, bionda, fredda e nordica; l’altra, scura e bollente, tipicamente napoletana.
Il caffè, posto nel centro della città, fu, per più di un decennio, il luogo di raccolta di tutte le più eminenti, o interessanti, o pittoresche figure di Napoli. Non solo, perché non c’era artista forestiero che mancasse di farvi una capatina, ancorché il suo soggiorno si limitasse a una mezza giornata, o poco più. Delle sale del Gambrinus, che presero ad essere indicate secondo precise caratteristiche, per cui si ebbero, tanto per richiamare qualche ricordo, la sala politica, la sala della vita, la sala rotonda, erano assi­dui frequentatori, tra una folla di nomi illustri: Salvatore Di Giacomo, Eduardo Scarfoglio, Ferdinando Russo, Roberto Bracco, Achille Torelli, Enrico De Nicola, Giovanni Porzio, Libero Bovio, Ernesto Murolo; il critico Saverio Procida, i pittori Morelli, Altamura, Casciaro, Caprile, Dalbono, Postiglione. Sia d’estate, all’esterno, che d’inverno, all’interno, piccole formazioni musicali di dame viennesi, o complessi locali, rallegrarono per anni le soste di cotanti brillanti ospiti. Sulle pedane all’aperto furono date numerose audizioni di Piedigrotta, con orchestre di almeno trenta elementi diretti da Vincenzo Ricciardi, e con cantanti che avevano peso nel varietà dell’epoca, da Diego Giannini a Olga Florez Paganini. Tra costoro, il più assiduo fu Eugenio Sapio, che vi cantò per lungo tempo.
Fino agli anni venti, il Gambrinus ebbe vita prospera; poi, sotto l’incalzare di eventi e mode con le quali non poteva avere, per le sue tradizioni, alcun rapporto, cominciò a declinare. Visse stancamente gli ultimi anni, fino al 1938, quando la sua chiusura divenne inevitabile. Fortunatamente intervenne il Banco di Napoli che rilevandone alcune sale per i propri uffici, evitò che tante opere d’arte andassero distrutte, come forse sarebbe accaduto se altri ne avessero preso possesso. Le rimanenti sale, su via Chiaia e S. Ferdinando, sono tutt’ora adibite a caffè, anzi bar, in uno stanco ricordo di quello che una volta fu il Gambrinus.

Ettore de Mura – Enciclopedia della Canzone Napoletana
Casa Editrice IL TORCHIO, Napoli 1969

La storia di una città si consuma per le strade, nelle sue case, nei suoi ritrovi. I suoi locali, quindi, risultano fondamentali nel recupero di una parte del suo passato e per una lettura del suo presente; quella parte di storia che è passata nei caffè, nei ristoranti, nelle pizzerie, attraverso aneddoti e citazioni che gli stessi proprietari custodiscono come un’eredità preziosa.

Centocinquant’anni di storia a sfilare tra quei tavolini di una capitale. Re, Regine, intellettuali, personaggi celebri o anonimi cittadini a sostare in un foyer unico al mondo, in una galleria d’arte da vivere sul filo di una musica1ità di vita. Dalle orchestrine viennesi alle indimenticabili canzoni napoletane, alla città moderna, a una qualità di servizi e prodotti sempre al top. Questo è il caffè di Napoli, questo è il Gambrinus. Una tradizione antichissima fa dei caffè uno dei centri vitali e culturali della città. Dislocato proprio nella culla della capitale, dinnanzi ai suoi tavolini si succederanno i più importanti avvenimenti della storia di Napoli, di tutta la nazione. Il vecchio Gran Caffè nel 1890 si trasforma in una vera e propria Galleria d’Arte diventando il Gambrinus. A ristrutturare preziosamente questi ambienti interverranno i migliori artisti dell’epoca. Pittori, scultori e decoratori daranno vita ad un laboratorio d’arte che susciterà l’ammirazione di tutta la città e dei tanti turisti che lo affollano. De Sanctis, Scoppetta, Caprili, Migliaro, Fabron, Capone, Volpe, Tafuri sono soltanto alcuni dei nomi che hanno lasciato una traccia in quel Caffè, da sempre frequentato da “galantuomini”, intellettuali e tanti giornalisti e poeti che da quelle sale hanno tratto ispirazione per la creazione di molte delle celebri melodie di quel fenomeno che è la canzone classica napoletana. Tra quei tavolini, accanto ad anonimi cittadini, si sono seduti quotidianamente celebri personaggi come D’Annunzio, Scarfoglio, Di Giacomo. Un rito mai interrotto e anche nei giorni nostri i personaggi più noti, compresi i Presidenti della Repubblica, non mancano di far visita a una Galleria-Caffè unica al mondo che sa fondere immagini d’arte con il piacere di una conversazione, con il gusto di assaporare sofisticati e ricercati prodotti. Tra quei tavolini non si è mai spezzato quel filo di piacere che continua ad essere il poter godere un attimo di relax. Tra un sorbetto, una raffinata pasticceria, un originale cocktail o il classico, irrinunc

iabile, caffè. Irrinunciabile come quel pezzo di storia, arte, cultura, vita che è il Gambrinus. Artisti, intellettuali e poeti da De Sanctis a D’Annunzio, da Migliaro a Di Giacomo, tutti hanno lasciato al Caffè Gambrinus una traccia del loro sapere.

 

 

GAMBRINUS, DOVE D’ANNUNZIO SCRISSE «’A VUCCHELLA»
Un locale ricco di storia, era la casa di poeti, scrittori, pittori, commediografi

«E’ una delle più significative espressioni dell’arte napoletana del secolo XIX» disse, di esso, Domenico Morelli. L’aspirazione dei suoi attuali gestori, i fratelli Sergio, è ora che il «Gambrinus» torni ad essere quello che fu negli anni compresi fra la metà dell’Ottocento e il primo trentennio del Novecento, cioè un caffè letterario, ove sanno darsi convegno artisti e intellettuali. Recuperata dopo una lunghissima battaglia burocratica, la quasi totalità dei suoi locali, il «Gambrinus», le cui pareti risultano ornate da dipinti dei maggiori pittori napoletani dell’Ottocento, ha festeggiato, con una manifestazione alla quale ha partecipato Armato Lamberti presidente dell’amministrazione provinciale, (proprietaria dei locali) il suo ritorno alla piena attività. E’ proprio carico di storia, il «Gambrinus» di Napoli, così come lo sono il «Greco» di Roma, il «Florian» di Venezia, le «Giubbe rosse» di Firenze e il «Pedrocchi» di Padova. Col nome di «Gran Caffè», esso fu inaugurato nel 1860, poco dopo l’arrivo di Garibaldi a Napoli. Vincenzo Apuzzo fondatore del «Gran Caffè» dovette vincere la concorrenza del dirimpettaio «Caffè Europa» e del vicino «Caffè Turco». Spedì dunque a Parigi, a Londra e a Vienna alcuni dei suoi collaboratori, affinché imparassero tutti i segreti della pasticceria internazionale e si fece promotore di fiabesche feste di carnevale e di mecenatesche occasioni culturali. Impiegò somme enormi, in queste iniziative. Ne trasse fama e gloria, ma scarsi guadagni e, infatti, di lì a non molto dovette cedere la gestione a Mariano Vacca, già proprietario del dirimpettaio «Caffè Europa».
Siamo alla svolta decisiva. Mariano Vacca convocò, per prima cosa, l’architetto Antonio Curri, uno dei più attivi dell’epoca il quale, a sua volta ingaggiò un gran numero, almeno una quarantina, fra scultori e pittori. I lavori durarono sei mesi, marmi, specchi, stucchi, bassorilievi, dipinti, dorature, furono gli elementi di cui l’architetto Curri si servì per articolare la sua opera. E fu sua l’idea di aggiungere, alla dicitura di «Gran Caffè», la parola «Gambrinus»: «Gran Caffè Gambrinus», in onore del leggendario re germanico probabile inventore della birra. Il 30ottobre 1890 vi fu l’inaugurazione ufficiale.
Ben presto il rinnovato locale diventò anche il principale luogo di convegno degli uomini di cultura della città. I nomi di poeti come Gabriele D’Annunzio (che dal 1891 al 1893 visse a Napoli) e come Salvatore Di Giacomo e di Ferdinando Russo, di giornalisti come Edoardo Scarfoglio, Matilde Serao e Francesco Bufi, di musicisti come Francesco Paolo Tosti e Mariano Costa, di commediografi come Roberto Bracco, di clinici come Antonio Cardarelli, di avvocati come Carlo Fiorante sono soltanto i nomi di alcuni di coloro che, a sera, andavano a trattenersi al «Gambrinus». E fu qui, peraltro, secondo uni incontrollata tradizione, che Gabriele D’Annunzio scrisse i versi della sua celebre canzone dialettale «’A vucchella». Così come, certissimamente, era qui che Ferdinando Russo scriveva i testi di quelle divertenti macchiette che Nicola Maldacea eseguiva al vicino «Salone Margherita», primo cafè-chantant d’Italia. Il «Gambrinus» venne ridotto a una minuscola stanzetta il 5 agosto 1938 per ordine del prefetto Giovarmi Battista Maculi. Il motivo ufficiale fu che il Gambrinus era diventato un covo di antifascisti. Il vero motivo, come ha sostenuto lo scrittore Giovanni Artieri, fu che il prefetto Marziali, anzi la moglie del prefetto Marziali, già insonne per sua natura, veniva disturbata, nottetempo, dai suoni dell’orchestrina del «Gambrinus». Appena cinque mesi dopo, purtroppo, il «Gambrinus» si portò appresso, nel suo crollo, un importante settimanale: il rotocalco «Omnibus», diretto da Leo Longanesi che tramite un articolo di Alberto Savino aveva trovato modo di denunciare il sopruso subìto dal locale. I locati dell’ex «Gambrinus» vennero, nella loro quasi totalità, ceduti in affitto a una banca e ad alcune ditte commerciali.
Michele Sergio, padre degli attuali gestori del «Gambrinus», fu colui che diede inizio alla battaglia per il recupero dei locali. Una battaglia vinta, in suo nome, dai suoi due figli. Per la gioia di tutta Napoli che ha, così, di nuovo, il suo vero e grande «Caffè letterario».

Vittorio Paliotti

coll.ne R. Cortese

IL RECUPERO DEGLI AMBIENTI
DELL’ANTICO
caffè Gambrinus

Con la restituzione dei locali del piano terra dell’originaria Foresteria del Palazzo Reale di Napoli, l’Amministrazione Provinciale, ma soprattutto la città ha riacquistato un altro pezzo della sua storia più recente che, come spesso accade, viene precocemente dimenticata: si tratta degli ampi saloni, riccamente decorati, dell’ottocentesco “Caffè Gambrinus”. Negli anni che seguirono l’unità d’Italia e nel corso dei complessi meccanismi amministrativi che ridistribuirono le proprietà della Corona alle amministrazioni pubbliche, l’edificio della foresteria è diventato sede della Prefettura di Napoli e di proprietà dell’Amministrazione Provinciale della città. Una parte dei locali al piano terra e precisamente quelli su Piazza Trieste e Trento, furono destinati ad uso commerciale: qui si trovava il “Gran Caffè” che, con l’avvento di nuovi gestori, cambiò il suo nome nel 1890 in “Gran Caffè Gambrinus”. Questo luogo segnerà un’epoca: le sue sale saranno testimoni, anno dopo anno, della silenziosa rivoluzione che, durante la “belle époque”, farà del ceto borghese ed industriale i protagonisti assoluti: nello stesso tempo questi luoghi pubblici, rappresentarono qualcosa di più di semplici Caffè, a Napoli come nelle altre capitali europee questi saranno i luoghi nei quali intellettuali, politici, artisti e rappresentanti di tutte le classi professionali si ritroveranno e scriveranno alcune pagine della storia culturale, sociale e politica dell’epoca. La decorazione dei saloni viene compiuta nel 1893, in occasione dell’ampliamento del Caffè con le sale che affacciano sulla monumentale Piazza del Plebiscito: il progetto dell’intero apparato decorativo viene affidato ad Antonio Curri. Il Curri, docente di Architettura ed Ornato nella Real Università di Napoli nonché professore onorario dell’Istituto di Belle Arti, si era distinto come artefice di numerosi impianti decorativi quali il restauro della facciata del Duomo di Napoli, la decorazione della chiesa di San Giovanni a Mare e, sopratutto, la decorazione della “Galleria Umberto I”. La decorazione dei saloni del Gambrinus si pone come un’altra importante tappa del modernismo in Napoli ed il fatto che ci si trovi in un Caffè non diminuisce lustro all’opera, anzi la arricchisce di valenze particolari legate ai costumi dell’epoca. Se nel complesso la decorazione degli stucchi può definirsi floreale, in più di un particolare è possibile cogliere quell’accento eclettico che non può far a meno di continui richiami al mondo classico. Nel lavoro decorativo il Curri si avvalse della collaborazione di Gaetano D’Agostino e Salvatore Cozzolino, mentre una vasta rappresentanza di pittori trova spazio sulle pareti e nei vani delle finestre, espediente che permetteva di mettere in mostra la ricca decorazione anche ai passanti. I quadri nel loro insieme sono rappresentativi della tipologia della produzione napoletana di fine secolo, contrassegnata dal vedutismo di squarci naturalistici en plain air o da ritratti di giovani popolani e popolane o rappresentanti del bel mondo sempre colti in pose naturali come in uno spaccato di vita quotidiano. Tuttavia, pur nell’imprescindibile marchio di napoletanità, è possibile intravedere alcuni aspetti collegati alle correnti estetiche di discendenza francese e austriaca. Il tutto fa della galleria dei saloni del Gambrinus un monumento omogeneo rappresentativo del panorama pittorico e decorativo della seconda metà del secolo, tale da richiedere un approfondimento di studi che ne rivaluti il ruolo, la funzione ed il valore monumentale.

Manuela Calabrese

L’antico caffè Gambrinus

Con la restituzione dei locali del piano terra dell’originaria Foresteria del Palazzo Reale di Napoli, l’Amministrazione provinciale, ma soprattutto la città ha riacquistato un altro pezzo della sua storia più recente che, come spesso accade, viene precocemente dimenticata: si tratta degli ampi saloni, riccamente decorati, dell’ottocentesco “Caffè Gambrinus”.
La storia dell’intero edificio è legata alla complessa sistemazione della piazza antistante il Palazzo Reale: questa, nel 1809 – epoca murattiana – diviene oggetto di un progetto decorativamente neoclassico che la renderà uno spazio degno delle nuove concezioni urbanistiche del secolo XIX; queste infatti, tra l’altro, dovendo anche assolvere alle istanze di una giusta integrazione tra le sedi del potere e la partecipazione del popolo ad esse, trovavano nell’enorme piazza la risoluzione di un esigenza primaria. II vincitore della gara per il progetto, indetta nel 1812, fu Leopoldo Laperuta, il quale godette anche della stima di re Ferdinando I – che gli permise di continuare il lavoro, affiancato dall’architetto di Corte Antonio De Simone.
Per il piano originale, al posto dell’odierna chiesa, Murat aveva predisposto una enorme sala circolare adibita a riunioni civiche e, nei vani laterali a questa, un Museo Nazionale della Scienza della Tecnica e del Lavoro. Inizialmente i due edifici, simmetricamente disposti ai lati della grande piazza, gemelli nella decorazione che ripercorre e ripropone gli ordini dei dettami vitruviani, dovevano avere la funzione, rispettivamente di sede dei ministeri di Stato l’uno e di ministero per gli Affari Esteri l’altro.
Ma poco dopo la loro definitiva realizzazione, furono adibiti quest’ultimo a Palazzo della Foresteria, mentre il primo, dopo aver predisposto per i ministeri la costruzione di Palazzo San Giacomo, fu destinato a residenza di Leopoldo di Borbone principe di Salerno.
Negli anni che seguirono l’unità d’Italia e nel corso dei complessi meccanismi amministrativi che ridistribuirono le proprietà della corona alle amministrazioni pubbliche, l’edificio della foresteria è diventato sede della Prefettura di Napoli e di proprietà dell’Amministrazione provinciale della città. Una parte dei locali al piano terra e precisamente quelli su Piazza Trieste e Trento, furono destinati ad uso commerciale: qui si trovava il “Gran Caffè” che, con l’avvento di nuovi gestori, cambiò il suo nome nel 1890 in “Gran Caffè Gambrinus”. Questo luogo segnerà un’epoca: le sue sale saranno testimoni, anno dopo anno, della silenziosa rivoluzione che, durante la “belle époque”, farà del ceto borghese ed industriale i protagonisti assoluti; nello stesso tempo questi luoghi pubblici, rappresenteranno qualcosa di più di semplici Caffè, a Napoli come nelle altre capitali europee questi saranno i luoghi nei quali intellettuali, politici, artisti e rappresentanti di tutte le classi professionali si ritroveranno e scriveranno alcune pagine della storia culturale, sociale e politica dell’epoca. Non è un caso quindi che per i saloni del “Caffè Gambrinus” si può parlare di un vero e proprio monumento dell’arte decorativa del modernismo a Napoli e di una galleria rappresentativa della seconda generazione di artisti aderenti alla corrente verista dell’Ottocento napoletano, quasi tutti allievi dell’Istituto di Belle Arti, e seguaci del Palizzi e del Morelli.
La decorazione dei saloni viene compiuta nel 1893, in occasione dell’ampliamento del Caffè con le sale che affacciano sulla monumentale Piazza del Plebiscito: il progetto dell’intero apparato decorativo viene affidato ad Antonio Curri. I1 Curri, docente di Architettura ed Ornato nella Real Università di Napoli nonché professore onorario dell’Istituto di Belle Arti, si era distinto come artefice di numerosi impianti decorativi quali il restauro della facciata del Duomo di Napoli, la decorazione della chiesa di San Giovanni a Mare e, soprattutto, la decorazione della “Galleria Umberto I”.
Quest’ultima, inaugurata il 10 novembre 1892, si può definire l’opera più rappresentativa in città sia della classe borghese napoletana che dell’architettura dell’era industriale la quale, con le sue strutture in vetro e metallo, ha come obbiettivo una fusione tra bello e funzionale ed ha come suo prototipo mondiale la Torre Eiffel a Parigi e la Mole Antonelliana in Italia.
La decorazione dei saloni del Gambrinus si pone come un’altra importante tappa del modernismo in Napoli ed il fatto che ci si trovi in un Caffè non diminuisce lustro all’opera, anzi la arricchisce di valenze particolari legate ai costumi dell’epoca. Se nel complesso la decorazione degli stucchi può definirsi floreale, in più di un particolare è possibile cogliere quell’accento eclettico che non può far a meno di continui richiami al mondo classico. Nel lavoro decorativo il Curri si avvalse della collaborazione di Gaetano D’Agostino e Salvatore Cozzolino, mentre una vasta rappresentanza di pittori trova spazio sulle pareti e nei vani delle finestre, espediente che permetteva di mettere in mostra la ricca decorazione anche di passanti.
I quadri nel loro insieme sono rappresentativi della tipologia della produzione napoletana di fine secolo, contrassegnata dal vedutismo di squarci naturalistici en plain air o da ritratti di giovani popolani e popolane o rappresentanti del bel mondo sempre colti in pose naturali come in uno spaccato di vita quotidiana. Tuttavia, pur nell’imprescindibile marchio di napoletanità, è possibile in tra ve de ne alcuni aspetti collegati alle correnti estetiche di discendenza francese e austriaca.
Il tutto fa della galleria dei saloni del Gambrinus un monumento omogeneo rappresentativo del panorama pittorico e decorativo della seconda metà del secolo, tale da richiedere un approfondimento di studi che ne rivaluti il ruolo, la funzione ed il valore monumentale.

AL GAMBRINUS

Chi avrebbe creduto che dalle affumicate sale del Gran Caffè sarebbe sorta, luccicante di dorature, adorna di quadri e di bassorilievi come un piccolo museo, la birreria Gambrinus? Eppure il miracolo si operò in poco più di due mesi per opera di Antonio Curri e di Mariano Vacca: di Antonio Curri artista ed ingegnere squisito che seppe trasfondere in tutti i più minuti particolari delle decorazioni il gusto e l’eleganza dell’arte sua: di Mariano Vacca che coraggiosamente profuse migliaia di lire per dare finalmente a Napoli il caffè, che fino a quel momento mancava. La sorpresa fu in tutti grandissima, e ricordo ancora lo stupore degli invitati nella sera che precedette la inaugurazione. In quelle sale candide, dove alitava un soffio di pura arte, la folla si allargava fermandosi poi a gruppi, qua e là, davanti ad un quadro come in una esposizione. Si credeva di essere più in un museo che in un caffè, e l’idea che un giorno tutti avrebbero potuto entrarvi liberamente parve a taluni una profanazione. Ma la bionda birra di Monaco spumeggiò ad un tratto nei bicchieri, e tra quei bicchieri spumanti apparve per la prima volta Sigismondo Sterra, lisciato, pettinato, impomatato, rigido come una marionetta nell’abito nero, nel colletto alto e duro come un collare; apparve, e parlò mostrando una cultura sbalorditiva….. in fatto di birre. Parve anzi a molti che per virtù miracolosa egli fosse scattato fuori da un book. Poche sere dopo il Gambrinus divenne il ritrovo della società più elegante, e le sue sale, dopo la mezzanotte, furono invase per la prima volta, da uno stuolo di belle signore uscenti allora allora dai teatri ancora scollate, scintillanti di gioielli, avvolte in morbide e costose pellicce. Il Gambrinus, a quell’ora si muta in salone aristocratico. Andateci invece prima della mezzanotte, e lo vedrete popolato di artisti tra i quali non vi sarà difficile trovare tutti quelli che non poco hanno contribuito alla bellezza estetica di esso. Esposito, Volpe, Pratella, Caprile, Postiglione, Fabron, Casciaro, Migliaro, Campriani, de Sanctis, Cepparulo, de Matteis, Irolli, Matania, Scoppetta, Diodati, son quasi sempre lì a discorrere animatamente intorno ad uno o due tavolini col creatore del Gambrinus, Antonio Curri. Entrando vi par quasi di essere a casa vostra tra buoni amici, anche perché non manca mai di accogliervi il sorriso benevolo di Raffaele Vacca, il più gentile, il più premuroso, il modello dei proprietari di caffè napoletani.

La Tavola Rotonda – 1891


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Feste di Piedigrotta …

LE FESTE ESTIVE

Tratto da Qui
Le Piedigrotte

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LA PIEDIGROTTA DEL 1895
di Ferdinando Porcelli e Rosaria Maggio

La ricostruzione di una Piedigrotta ci offre l’opportunità di mostrare l’articolazione territoriale, economica, organizzativa di una festa che a partire dagli anni intorno al 1880 cominciò a cambiare fisionomia, trasformandosi dapprima in momento di diffusione delle canzoni che annualmente gli editori musicali rendevano pubbliche tramite giornali e riviste, quindi in un momento pubblicitario per merci e per nuovi modi di consumare, ed infine definì un nuovo uso del territorio, divenendo un momento in cui la città metteva in scena se stessa e quelle che voleva definire come le sue caratteristiche e potenzialità.
Il modello della Piedigrotta delle canzoni funzionò per l’ideazione delle Feste Estive che nel 1894, proprio l’anno precedente quello da noi prescelto, furono promosse e finanziate per la prima volta dall’Associazione Commercianti, sostenuta dalla stampa cittadina, in collaborazione con le autorità comunali e con il Banco di Napoli.
Le Feste Estive consistevano in un fitto programma di gare sportive, spettacoli, esposizioni, concerti, tornei che duravano da luglio a settembre per culminare nella annuale celebrazione della Piedigrotta. In quest’ambito gli stabilimenti balneari e quelli termo-minerali, i café-chantante i ritrovi più eleganti organizzavano speciali programmazioni di spettacoli; si predisponevano calendari di gite nel golfo; la Villa Nazionale, Piazza Plebiscito e la Galleria Umberto ospitavano quotidianamente concerti gratuiti; i comuni vesuviani preparavano i loro “trattenimenti e svaghi estivi”; la Società Nazionale delle Strade Ferrate e la Navigazione Generale d’Italia concedevano particolari agevolazioni per il prezzo e la durata dei biglietti dei viaggiatori diretti a Napoli.

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Anche la festa di Piedigrotta del 1895, dunque, si inscriveva nell’ambito delle Feste Estive che ne rappresentavano in qualche modo l’enfatizzazione e l’ampliamento. In questo secondo anno, le feste ebbero carattere di particolare ricchezza e il loro programma, oltre a essere diffuso come già l’anno precedente tramite quotidiani e periodici, fu oggetto di un opuscoletto particolarmente curato: la Guida Programma Ufficiale per le Feste Estive che – oltre a una breve sezione di letteratura amena – racchiudeva indicazioni utili come gli orari di treni e battelli da e per la città. In più, il Comitato Generale delle Feste Estive, di cui facevano parte eminenti personalità cittadine, letterati, musicisti, poeti, commercianti e industriali e che si avvaleva di sovvenzionamenti privati e comunali, aveva fatto pubblicare dall’editore Tocco un volume dal titolo Napoli. Storia, costume, igiene, clima, edilizia, risanamento, industria redatto anche da medici, igienisti, scienziati, in cui si elogiavano le attrattive climatiche, paesaggistiche, storiche e di costume della città. Le iniziative dell’estate 1895 furono innumerevoli: dalle esposizioni di prodotti agricoli e industriali, alla festa dei costumi popolari femminili; dalle gare pirotecniche che ricostruivano episodi della guerra tra Cina e Giappone in Piazza Plebiscito, alle regate di pescatori e battellieri del golfo (l); grande novità di quell’anno furono un chinetoscopio e sei fonografi Edison costantemente in funzione dalle 10 alle 23 in Galleria Umberto I (2). Il comitato aveva, inoltre, bandito una serie di concorsi, pratica comunemente adottata nella Napoli fine ottocentesca quando si voleva ottenere il risultato di adeguare pratiche diffuse a determinati standard. Per le manifestazioni piedigrottesche del 1895 – ad esempio – i concorsi per la migliore esposizione di frutta e il miglior chiosco alimentare garantirono almeno parzialmente la cura della scenografia e soprattutto il suo allineamento a canoni comunemente considerati desiderabili (3).

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Il 7 settembre avvenne la premiazione del concorso per la migliore esposizione di frutta. Il premio di 100 lire fu vinto dal Sig. Luigi Dario che aveva presentato una esposizione di frutti in cristallo, sbaragliando così la concorrenza del Villino artistico di frutta presentato da Giosuè Musella, delle Melanzane Olandesidi G. Avolio, de Una banca di fichi d’lndia di Giuseppe Fedele, de Un carro di frutta di Giuseppe Salierno, e Un Padulano (ortolano) tutto di frutta di Luigi Giuseppe Musella.
Inoltre, già dal 1° settembre – mentre tra di essi Zi’ Tore, il cantastorie, declamava il Rinaldo – si erano inaugurati in Villa, nel recinto destinato alle feste, i chioschi caratteristici napoletani, che vale la pena di enumerare – così come fece il Corriere di Napoli del 1 settembre – se altro per la suggestione di nomi e titoli:
- Osteria alla napoletana diretta da Don Vicienzo, ‘o cantiniere d”a chiazzetta ‘e puorto;
- Chiosco per la cottura dei maccheroni e fritto di pesce diretto da ‘a Mezanotte e l’Acquatriglia;
- Un chiosco per la vendita di frittelle fatte prontamente diretto da Giovanni, ‘o russo d”e naste;
- Un banco per la vendita di frutta, di patrone Bartolo Matarese;
- Un banco per la vendita di fichi d’India, di Raffaele Chiantiello e ‘Tore Palatino d”a marina;
- Un venditore di lumache in grande tenuta, di Giovanni ‘e puorto;
- Un banco per la vendita di gassosa, di Ferdinando Mitasci;
- Una venditrice di spighe, di Teresella d”e Lanzieri;
- Un ostricaro, di Pasquale ‘o ciciniello.
Nel recinto della Villa durante la settimana di Piedigrotta – dunque nuovi e diversi motivi di piacere si sommavano a quelli cui i napoletani erano già stati abituati durante tutta l’estate: il 4 settembre ebbero luogo i quadri viventi – Nerone che assiste all’incendio, Apollo e le nove muse e Un duello dopo il ballo, ispirato quest’ultimo a un quadro di Gerome – per la scenografia del conte Antonio Coppola. Oltre al diletto per gli spiriti raffinati costituito dai quadri viventi, si pensò anche allo svago per le anime semplici, rappresentato dagli alberi della cuccagna, eretti in Villa 1’8 settembre.
Ma Piedigrotta non sarebbe stata completa senza le sfilate. Nel 1895 se ne tennero tre: quella dei carri, quella dei giornalai e la grande fiaccolata dei Tre regni della natura e le grandi invenzioni.
La sfilata dei carri era organizzata anch’essa nella modalità del concorso. I carri sfilarono attraverso la città per due volte: nella mattinata e nella serata del 7 settembre su un percorso che partiva dal Museo Nazionale e, lungo via Toledo, raggiungeva Piazza Plebiscito, quindi Santa Lucia, il Chiatamone e infine il recinto delle feste della Villa, dove i figuranti e i musicisti dei carri replicarono per due volte le loro canzoni. I carri furono 19, le canzoni qualcuna in più perché – come ad esempio sul carro Café Chantant sul quale si cantarono Café Chantant e ‘A novità di Gabriele Marra – su alcuni carri si eseguirono più canzoni. Con 150 lire furono premiati (1° premio ex aequo) i carri Il voto (canzone ‘O Vuto di Federico Cozzolino e del M° Albin, eseguita dagli eccentrici del S. Carlino); I Molinari alla festa (canzone Friccecarella di Nicola Marfé e Carmine Marino); Cesta di fichi (canzone So’ d”o ciardino overo di Luigi Russo e Enrico Caino). Con il secondo premio ex aequo furono inoltre premiati i carri: Costumi napoletani, Carro Campestre, Corbeille, Pacchiani sul somaro.

Come si vede, in questa fase della festa la trasformazione del carro da mezzo di trasporto dei pacchiani dei casali e dei paesi limitrofi per il pellegrinaggio alla Madonna di Piedigrotta (quei carri su cui si cantavano le tammurriate e i canti ‘a ffigliola in onore della Vergine) in carro allegorico stava avvenendo abbastanza lentamente. Prevalevano, infatti, gli allestimenti facilmente ottenibili con modeste modifiche ai carri agricoli di tipo tradizionale: i Molinari alla festa, Cesta di fichi, Carro campestre, Pacchiani sul somaro citati, ma anche ‘A Vennegna ‘e Napule, ‘A Cesta, La Pagliara. La cavalcata dei giornalai – altra manifestazione tradizionale piedigrottesca che alcuni fanno risalire alle sfilate militari borboniche, di cui le cavalcate sarebbero l’evocazione – prese il via alle ore 21.00 del 7 settembre dalla porta delle scuderie del Museo Nazionale e percorse il medesimo itinerario dei carri. Seguita dai carri stessi, giunta in Villa attraversò il recinto delle feste, per poi percorrere la Riviera di Chiaia fino a Piedigrotta e rientrare nuovamente in Villa fra le 22,30 e l’una di notte. Il tema dell’anno fu La partenza dei tredici per la disfida di Barleffa. La sfilata era composta da 150 pedoni, 40 cavalieri e una fanfara composta da otto persone. Chiudeva la sfilata il carro dei giornalai. Ad attendere cavalcata e carri, una giuria formata, fra gli altri, da Salvatore Di Giacomo, Ferdinando Russo, Eduardo Matania, Enrico De Leva, Roberto Bracco.
Tutti i costumi erano forniti dalla ditta Falanga, le armature da Salvatore Giuliano (noto armiere teatrale), le attrezzature dalla ditta Tammaro Mangini e i cavalli della ditta Forgione. Le forze economiche e commerciali cittadine – oltre che procurare forza lavoro intellettuale e organizzativa, e sostegno economico alle iniziative – svolgevano un ruolo nella produzione della festa anche nella offerta gratuita di merci, costumi e attrezzature per le principali messe in scena.
Veniamo ora al grande evento del 1895, la Fiaccolata Fantasmagorica che aveva per oggetto I tre regni della natura e le grandi invenzioni, diretta ed eseguita dalla ditta Fantappié di Firenze, con pubblico spettacolo di illuminazione. L’itinerario di questa sfilata, cui partecipavano tra l’altro numerose bande musicali, si snodò attraverso circa 2 chilometri: da via Costantinopoli, al Museo e poi lungo via Toledo, piazza S. Ferdinando, via S. Carlo, via Medina, il Rettifilo, via Duomo, via Foria, piazza Cavour per fare ritorno finalmente al punto di partenza. Questa sorta di Ballo Excelsior da strada – in un’epoca di grandi innovazioni tecnologiche e di enormi attese per il futuro – mescolava fiori, frutti, animali, minerali in tutte le loro varietà, razze, classificazioni con orologi, bussole, treni, piroscafi, aerostati, telefoni, telescopi, macchine fotografiche ed elettriche. Il tutto riprodotto su grandi trasparenti illuminati a creare magici effetti di luci e di colori.
Ma gli eventi più attesi, quelli che si prevedevano più seguiti, erano naturalmente i concorsi delle canzoni: al solo concorso del Ciardino delle Feste, bandito dal Comitato per le Feste Estive, parteciparono oltre cento canzoni. Ma il numero delle canzoni che furono scritte quell’anno in città è senz’altro più imponente (4).
Concorsi di canzoni furono promossi dai giornali Napoli Musicale e Diavolo Rosso e dall’impresa del teatro Grande Esedra; vi fu un concorso Fiorillo (presumibilmente bandito dai proprietari del ristorante Ai Due Leoni in piazza Municipio), uno indetto dal Circolo Musicale Fenaroli (quest’ultimo – secondo il Roma del 6 settembre – patrocinato anche da Il Mattino); un concorso ebbe anche la casa editrice Pisano, il cui negozio di musica era in Via Toledo, e naturalmente vi fu quello che Bideri lanciò attraverso la sua rivista La Tavola Rotonda. Ricordi, invece, non bandì – né era sua abitudine – alcun concorso, limitandosi a presentare in più occasioni e in diversi luoghi la sua produzione per quell’anno: produzione già stampata in un elegante volumetto di soli testi, illustrato da Scoppetta e intitolato Chi chiagne, chi ride. Canzoni furono pubblicate inoltre su tutti i principali giornali quotidiani e periodici: dal Roma, all’Occhialetto, dal Don Marzio, al Fortunio, da 11 Mattino a Le Varietà. Canzoni vennero eseguite in vari giorni, diverse occasioni e in più luoghi. Il Giardino delle feste in Villa Nazionale il 5 e 6 settembre ospitò l’esecuzione delle circa venti canzoni selezionate dal concorso del Comitato per le Feste Estive; fra gli interpreti, Diego Giannini e Emilia Persico. In questo concorso l’editore Santojanni fu particolarmente favorito dalla sorte (e dalla giuria) e portò al successo tre sue canzoni – Ndringhete ndrà! di De Gregorio e Cinquegrana; Girulà di Califano e Nutile; ‘E Cataplaseme di Capurro e Di Chiara, tutte pubblicate da L’Occhialetto – che si aggiudicarono primo, secondo e terzo premio.

Al Gran Circo delle Varietà, al Chiatamone, il 1 settembre ebbe luogo il concerto del M Vincenzo Galassi, esecuzione delle canzoni di Piedigrotta delle edizioni Ricordi. I solisti furono Maria Masula, Nunziatina Lombardi, Raffaele De Rosa, Giuseppe Giusti. Furono eseguite canzoni di Vincenzo Valente, Mario Costa, Enrico De Leva; fra gli autori dei testi Salvatore Di Giacomo e Ferdinando Russo.
All’Eldorado- stabilimento balneare di giorno, ritrovo elegante di sera, inaugurato il 16 luglio 1894 a Santa Lucia di fronte a Castel dell’Ovo il 1 settembre ebbe luogo l’audizione delle canzoni del concorso de La Tavola Rotonda: fra gli interpreti Amelia Faraone, Emilia Persico, Nicola Maldacea, Ciccillo Mazzola. La canzone vincitrice fu Don Saverio di Vincenzo Valente e Pasquale Cinquegrana, nell’esecuzione di Nicola Maldacea. Altri premi furono assegnati a ‘O frate ‘e Rosa (ed. Santojanni) di E. Di Capua e P. Cinquegrana; Venezia benedetta! di G.B. De Curtis; I’ voglio bene a te di S. Gambardella e P. Cinquegrana; I’ só franco ‘e cerimonie di P. Guida, G.B. De Curtis; Cerasella di A. Califano e P. E. Fonzo; Crestina ‘e Mondragone di A. Mancini e P. Cinquegrana. Ma le esecuzioni di canzoni non si fermarono qui: al Teatro Sannazaro, in via Chiaia, il 4 settembre si svolsero le prove generali delle canzoni del concorso delle Feste Estive; sotto le finestre del Corriere di Napoli ebbe luogo il concerto-serenata ‘E bellezze ‘e Napule, diretto da Nicolò Evangelista; al Circolo Musicale Fenarolisi cantò Fatte vasà di Paolino Stefanile e A.F. Alfano; fra il 12 e il 16 senembre in Piazza Plebiscito e al Caffè Gambrinus si replicarono più volte le canzoni di Ricordi; il 26 settembre in Galleria Umberto 1°, al Caffè Starace (divenuto poi nel 1899 Caffè Calzona) quelle de La Tavola Rotonda.
La canzone era, dunque, il momento centrale delle festività piedigrottesche; tutto il complesso sistema editoriale, spettacolare, organizzativo, distributivo e di consumo che ad essa faceva capo – nel suo sforzo di utilizzare i linguaggi e le risorse cittadini in modo nuovo e per nuovi fini aveva provocato profondi cambiamenti nella festa tradizionale: erano nati nuovi riti, nuovi “pellegrinaggi”, nuove mete per le feste settembrine. Dai luoghi vicini alla chiesa della Madonna di Piedigrotta gli itinerari dei napoletani si erano spostati sulle nuove arterie aperte dal Risanamento e dalla colmata di Via Caracciolo, dove erano stati inaugurati teatri, caffè, caffè concerto, stabilimenti balneari modernamente concepiti e che rappresentavano ora i nuovi luoghi della festa; anche gli itinerari dei carri che si avviavano a diventare allegorici e delle sfilate toccavano i gangli fondamentali della “città nuova”. Ma la nuova organizzazione piedigrottesca non arricchì soltanto la festa di nuovi motivi e nuovi centri di attrazione: essa approfondì il divario fra attore e spettatore cominciando a sostituire lo spettacolo alla festa. Nello stesso tempo, man mano che l’importanza commerciale, turistica, economica di Piedigrotta cresceva – secondo un modello sicuramente sofisticato, che prevedeva l’uso sinergico delle risorse territoriali, del sistema dello spettacolo e di quello dell’informazione, del sistema commerciale, dei servizi, dei trasporti aumentava parallelamente l’interesse a mostrare il lato migliore della città, il più consono alle aspettative e che – dunque – era da un lato modellato su un immaginario consolidato che riguardava le vocazioni specifiche della città, ma dall’altro guardava anche alle nuove mitologie del lusso e del comfort.
Di conseguenza si accrebbero la complessità della festa, la sua articolazione e naturalmente aumentarono la specializzazione, la divisione del lavoro, la gerarchizzazione degli apparati e delle organizzazioni che presiedevano alla sua preparazione. E aumentò l’importanza economica della festa stessa, e non solo per i visitatori che essa portava a Napoli, o perché a partire dalla Piedigrotta gli editori musicali prendevano il via per “esportare” le loro canzoni anche nel resto d’Italia e del mondo. Carri, fuochi pirotecnici, sfilate, fiaccolate, palchi, pedane, chioschi, recinti nascevano dal lavoro di ideatori, organizzatori, finanziatori, architetti, scenografi, impresari, ma anche da quello di sarti, fuochisti, carpentieri, artigiani, decoratori; le canzoni erano il frutto della creatività di autori, musicisti, illustratori, dello spirito imprenditoriale degli editori, ma richiedevano l’impiego di compositori, tipografi, piegatori, spedizionieri: Piedigrotta era una grande occasione di lavoro – e richiedeva un’alta qualità di lavoro – per molte persone.

1 Notizie tratte dal Fortunio, 10 luglio 1895, 20 luglio 1895
2 Notizia tratta dalla Guida programma ufficiale delle Feste Estive, Napoli, Tocco, 1895.
3 Tutte le notizie del paragrafo sono tratte dal Fortunio, Don Marzio, Roma, Il Pungolo Parlamentare, Corriere di Napoli, Il Mattino, L’Occhialetto, La Tavola Rotonda dei giorni fra l’1 e il 15 settembre del 1895, confrontate e incrociate fra loro.
4 L’elenco riguarda solo le canzoni di cui si sono travati gli spartiti o quelle della cui esecuzione si è appresa la notizia tramite la consultazione dei giornali. Il numero delle canzoni effettivamente eseguite e satmpate potrebbe, dunque, essere più grande di quello indicato.

Tratto dal catalogo: Piedigrotta 1895-1995
Progetti Museali Editore, Roma 1995

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La Canzone Napoletana nei secoli…

La CANZONE NAPOLETANA ATTRAVERSO I SECOLI

Tratto da qui

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Non sarà, forse, del tutto superfluo ricordare che si è in molti ad affermare che, soltanto con la presenza della canzone napoletana nel contesto della produzione canora italiana, viene consentito di avviare un discorso sull’esistenza di una canzone nazionale, cioè con caratteri e moduli propri.
Al riguardo, poiché non è il caso di svolgere su queste pagine ragionamenti di tal fatta, mi sia consentito di commentare, sbrigativamente, che se promozione da cantata regionale a canto nazionale rappresentativo c’è stata, questa, la canzone napoletana se l’è guadagnata; dapprima lentamente e poi, negli anni a cavallo dei due secoli, velocemente e con clamore, in virtù di un’autonomia di mezzi espressivi insorgenti dalla possibilità, per la forma musicale, di mutuare direttamente dal dialetto proposte tematiche, sollecitazioni fantasiose, suggerimenti di immagini, abbandoni lirici.
In partenza non c’è, tanto per essere chiari, nessun diaframma fra testo e musica; il resto, ovviamente, appartenendo alla sensibilità di chi scrive o compone. Si può dire, con meditata valutazione, come alla radice della canzone napoletana, in quanto significazione di fatto artistico, ci sia davvero coerenza di linguaggio, parole e musica che alla fine diventano un’invenzione armonicamente unitaria, epperò di stampo originale.
Per la strutturazione e le risorse del dialetto da cui prende vita, la canzone napoletana ha, in embrione, la virtù di non essere mai generica ancorché – come tutti i componimenti del genere – in pochi versi. Non ci sono incongruenze verbali, sia che si parli di episodi sentimentali e poetici, sia che si adombri una dimensione psicologica, oppure si tratteggi una situazione comica o grottesca.
Le metafore sono genuine, le similitudini nitide, l
’eufemismo malizioso e l’ironia tagliente; una ricchezza di corde a petto dalla quale il compositore è pungolato nel suo estro migliore. Che io sappia, altrove, tanto più per la canzone in lingua, è compito alquanto ardimentoso giungere a formulare osservazioni analoghe. Una verifica, questa, che chiunque può fare, proponendo all’ascolto di un ignaro straniero, un gruppo di canzoni nostrane, tra cui una di Napoli, e, non necessariamente, ’O sole mio oppure Torna a Surriento. Ebbene, noterà che la canzone napoletana sarà riconosciuta subito, e chiaramente indicata nella sua provenienza, mentre le altre – gradevoli o meno, non ha importanza continueranno a conservare l’anonimato.
Insomma, tutto porterebbe a concludere – se il discorso potesse avere un seguito – che ha mille canne di ragione chi afferma che soltanto nella canzone napoletana è identificabile la nostra canzone nazionale.
Questa breve premessa, nelle mie intenzioni, dovrebbe apportare sostanza all’atto di fedeche ho manifestato a chiusura dell’avvertenza e conferire decoro ai ragguagli che mi accingo a dare intorno al «bel canto» di Napoli.
Quanto abbiano influito le civiltà greca e latina su Napoli, è riscontrabile nei frammenti di opere venuti alla luce attraverso secoli di pazienti e, spesso, avventurose ricerche. Nella maggioranza dei casi, abbiamo soltanto delle tracce, ma, tanto significative, da consentire illecito perseguimento della ricostruzione di sistematici ricordi storici.
I canti greci, d’amore o satirici, politici o religiosi, mandavano in visibilio aristocrazia e popolo, specialmente se inseriti in rappresentazioni teatrali; quelli romani non furono da meno, se ascoltandoli – come scrive il Polidoro – «Tito Livio e Virgilio si erano sempre commossi».
E Napoli li assorbì con tanta passione, questi canti, e tanti ne creò, da venir considerata la città più musicale della Campania e più di Roma stessa, cosicché nell’anno 63 d. C. Nerone Imperatore ritenne confacente alla sua dignità l’esibirsi davanti ai napoletani accompagnandosi con la cetra.
Di quei canti non si hanno più segni se non, forse, attraverso le voci dei venditori, qualche brano di arie popolari antiche e i «canti a figliola», le cui «fioriture e melismi vi richiamano al canto fermo».
Nel primo millennio dell’Era Cristiana, in tutta Italia, si cantava su testi latini, molti dei quali sono conservati nelle biblioteche d’Europa.
Erano divisi in due gruppi: quelli per persone altolocate e colte, che parlavano di battaglie, di regnanti, di avvenimenti; e quelli creati per il popolo, con sfondi diversi: l’amore, la satira, la lussuria, la licenza grossolana.

IL DUECENTO

Qui abbiamo i primi, convincenti segni della presenza della canzone napoletana. Trascuriamo pure quanto vien riportato ne’ cc Le cronache di Matteo Spinelli» a proposito del Re Manfredi che «la notte asceva per Barletta cantando strambotti et canzone», perché il riferimento, sebbene ripreso da quasi tutti gli storici della canzone napoletana, è stato oggetto, e lo è tuttora, di accesa polemica fra illustri scrittori impegnati vanamente ad accertarne o negarne l’autenticità.
E’ accettabile, invece, la versione secondo la quale, nei primi decenni del ‘200, mentre Federico Il radunava intorno a sé uomini d’ingegno e artisti, dalle balze del Vomero si levava un canto semplice, una invocazione, ricca di reminiscenze deistiche, all’astro che dà vita al giorno:

Jesce sole,  jesce sole,
nun te fà cchiù suspirà!
Siente mai ca li figliole
hanno tanto da prià?

E’ l’invocazione delle prosperose lavandaie di Antignano, osannanti la bellezza dell’Infinito ed il lavoro.
Ovviamente, i versi citati sono giunti a noi attraverso aggiornamenti cui hanno messo le mani chissà mai quante persone.

IL TRECENTO

Del ‘300, una testimonianza sull’esistenza della nostra canzone potrebbe essere quella che il Boccaccio dà nel «Decamerone», il «Filocolo», «Fiammetta» e le «Rime». Senonché, qualche studioso, giustamente si è chiesto di quali canzoni intendesse parlare il Boccaccio, cioè se in lingua oppure in dialetto.
Il grande novelliere fiorentino rievocando il suo lungo soggiornò a Napoli, dove si è innamorato della figliuola di Re Roberto incontrata per la prima volta nella Chiesa di S. Lorenzo, mostra il suo entusiasmo per la città e fa intravedere che da essa trae ispirazione per le sue opere. Qui, come è noto, scrive ad un suo amico persino una lettera scherzosa in dialetto napoletano. Nei suoi libri, infatti, parlerà del nostro mare, dei castelli, della reggia e rievocherà le canzoni ascoltate durante le gite nel golfo. Ma oltre le canzoni e un canto fanciullesco in dialetto ricordati dal Boccaccio, un certo numero di strofe e frammenti sono pervenuti a noi. I nomi dei loro autori, però sono rimasti avvolti nel mistero, mentre sono alquanto noti i nomi di alcuni degli autori dei componimenti in lingua.

IL QUATTROCENTO

Il ‘400 porta importanti innovazioni, anzi sconvolgimento, nella musica seria a Napoli e, per riflesso, anche nella canzone.
Intorno alla Corte Aragonese, per merito di Re Alfonso, rifiorivano le arti belle; dappertutto, in Italia, le Corti incoraggiano poeti e artisti. E quando, per volere di Alfonso, il dialetto fu elevato a lingua del Regno, strambotti, madrigali, ballate, frottole, sonetti, si cominciarono a scrivere in napoletano.
La frottola - canzone a ballo importata da altre regioni – era già in voga in tutta Italia, e qui da noi, nella seconda metà del quattrocento, sostituì la ballata, così come lo strambotto, anch’esso d’importazione, sostituì il
sonetto.
Il madrigale, noto in tutta la penisola sin dal secolo precedente, si trasformò, prese nuove forme per merito di musicisti colti, e continuò a trasformarsi fino a diventare un genere squisitamente aristocratico.
Nel 1458, Ferdinando d’Aragona, per dare maggiore impulso alla musica, invitò a Napoli un gruppo di maestri stranieri «d’altissimo pregio», fra cui il Tinctoris, l’Ykart, il Garnerius; il primo, oltre a pubblicare importanti metodi musicali, fu Cappellano e maestro di Cappella in Castelnuovo; il secondo, fu cantore nella stessa Cappella dal 1480. Si fondò la prima scuola musicale e attraverso di essa la musica napoletana subì una radicale trasformazione. «L’influenza fiamminga – scrive il Prota-Giurleo – si riflette per conseguenza anche sulla musica vocale, che diventa polifonica, sempre più complessa e difficile; musica da signori; il popolo resta fedele alla monodia e continua a cantare nella sua lingua, come il cuore gli detta».
I musicisti classici ora si dedicano completamente al madrigale, ne compongono per tutte le occasioni, finché esso – a distanza di due secoli – non sfocerà nel melodramma.
I musicisti meno classici si dedicano, invece, a un genere nuovo: la villanella, che, a distanza di pochi anni, invaderà l’Italia e l’Europa.
Una trasformazione, questa, che se da una parte accende entusiasmi, dall’altra suscita, attraverso la voce di un anonimo autore di un
«gliuommero», rimpianti per le canzoni del tempo passato:

.  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .
quelle dance retonne
- et lo cantare
faceano allegrare
-
sta citate.

IL CINQUECENTO

Il ‘500 è un secolo d’oro per la canzone napoletana.
Sono gli ultimi guizzi di vita per la frottola e lo strambotto; è in gran voga il madrigale, allorché scoppia la passione per un nuovo genere di canzone: la villanella. Derivata da un ballo campestre, la nuova composizione entusiasmò dapprima il popolo; poi, man mano, entrò nelle case aristocratiche, interessò musicisti raffinati che, attraverso testi in lingua, la trattarono tecnicamente alla stregua del madrigale, badando molto all’armonia e usando senza eccezione lo stile polifonico. La villanella penetrò in tutte le regioni d’Italia, varcò i confini, e fu imitata e stampata ovunque con la definizione di villanella alla napoletana. Da allora, la nostra canzone dominò da sovrana e non ebbe che una sola rivale, sia pure con un dominio meno vasto: la canzone spagnola.
Una prova che la villanella fu conosciuta e apprezzata anche in Francia, ce la dà Benedetto Croce nei suoi «Aneddoti di varia letteratura
» - Vol. I. Nel capitolo «Isabella Villamarino» narrando alcuni episodi del nobile marito di questa dama napoletana, Ferrante Sanseverino, principe di Salerno, autore di poesie e canzoni, sia per i versi in italiano che per la musica, ch’ebbero molta fortuna in Italia, in Francia, e in Ispagna, rileva che il Principe nel 1544-45 in Fontainebleau «si era fatto ammirare dalle dame della corte come cantante» e pubblica un brano di rapporto dell’inviato fiorentino, il Vescovo di Forlì, Bernardo dei Medici, spedito a Cosimo I dei Medici, a Firenze, nel dicembre del 1544: « Ogni sera molte dame li fanno cantare delle canzoni napolitane et ci hanno indocte una quantità di chitarre et ogni dama ha la sua».
A Napoli, addirittura, non si cantavano che villanelle; nei salotti e nelle accademie, in forma polifonica, e cioè a due, a tre, a quattro voci, in coro; per le strade, le piazze, le rive, le osterie, con accompagnamento di strumenti vari, in forma monodica. E, specie in piazza Castello, i cantori richiamavano gran folla di appassionati.
Per il nostro golfo, comitive di gitanti in barche e feluche – zeppe di popolani le prime, ospitanti gentiluomini e gentildonne le seconde – usavano cantare le nuove villanelle, nelle ammalianti insenature di Posillipo.
Spesso allietavano le comitive complessi musicali e cantanti di professione, svolgendo un vero e proprio programma.
I poeti dialettali Giambattista Basile, Giulio Cesare Cortese, Sgruttendio, ed altri, hanno lasciato molti titoli o frammenti di versi di villanelle in voga nel ‘500; Giovan Battista Del Tufo, nel suo manoscritto «Ritratto di Napoli», recentemente pubblicato a cura di Calogero Tagliareni, ne elenca molte altre. Dobbiamo ritenere, secondo le sue citazioni, che a Napoli, alla sua epoca, erano popolarissime – fra quelle italiane e in dialetto – oltre trenta villanelle.
Alcuni titoli:
Parzonarella mia, parzonarella, Se vai all’acqua, chiammarne, commara, Tu si de Nola et io de Marigliano, Guarda de chi nie iette a nnarnmorare, Sciosceme ‘ncanno lo napulitano, Oh bella, bella, mename nu milo, O quanta sciore o quanta campanelle, Russo meiillo mio.
Grande importanza avevano le esibizioni di canto nelle feste di famiglia e nelle feste popolari, come quelle di San Giovanni a Mare e Santa Caterina a Formiello.
Particolarmente ricordevoli i festeggiamenti dedicati al mese di maggio, una celebrazione che si ispirava alle più antiche maggiolate fiorentine.
Al primo giorno del mese, davanti a tutte le porte di casa, sui balconi e sulle finestre, s’issava l’albero del «Maio». La festa aveva inizio all’alba con le mattinate, che gli innamorati, accompagnandosi con strumenti dell’epoca – cètole, tiorbe, calascioni – dedicavano alle loro amate. Per tutta la giornata, nelle abitazioni, e fuori, si consumavano i pranzetti più succulenti, annaffiati dai vinelli delle campagne. L’albero del «Maio» rimaneva al suo posto per tutto il mese durante il quale, tranne che per brevi pause, i napoletani gareggiavano in mattinate, serenate, balli, pranzi, cene, canzoni.
Fra i poeti napoletani, il freschissimo Velardiniello, autore della nota Voccuccia de no pierzeco apreturo, e, fra i compositori: Andrea Falconieri, Giovanni Del Giovane, Francesco Lambardi, Gian Domenico Montella, Antonio Scandello, Donato Antonio Spano, con le villanelle Chi la gagliarda, donne vo’ imparare, Vurria che fosse ciàola, Napolitani nun facite folla, Ssi suttanielle donne che portate, Lo pollice, ecc.
Molte delle villanelle nate a Napoli si stamparono anche a Venezia, Bologna, Roma in raccolte ben curate e contenenti sia i versi che la musica. Moltissimi i fogli volanti, stampati rozzamente dai tipografi napoletani, purtroppo andati distrutti.
Non posso essere d’accordo con Massimiliano Vajro, uno dei più preparati storici della nostra canzone nonché persuasivo commentatore di cose napoletane; non posso essere d’accordo con lui, e me lo perdoni il carissimo amico, allorché gli viene di affermare che la canzone napoletana va datata all’ottocento, «e solo in questo secolo poteva nascere». (M. Vajro – La Canzone Napoletana, Napoli, 1957).
Per dar maggior forza alla sua affermazione, il Vajro, con suggestivo contrappunto, nega che le villanelle possano aver generato la canzone napoletana per concludere che «…esse non vanno inserite se non per una piccola parte nello sviluppo della canzone napoletana». Perciò non approva la tesi del Monti nella quale si prospetta la se
guente identificazione: «Le vilianelle non sono altro che le canzoni di Napoli del Cinquecento e del Seicento, sono il nome specifico onde venivano chiamate le liriche popolari napoletane».
Identificazione propugnata, d’altronde, anche da Fausto Nicolini e Ulisse Prota-Giurleo. Vajro, invece, è più che mai convinto che soltanto nell’ ‘800 la canzone napoletana abbia trovato forma, esattamente con l’intervento di Salvatore Di Giacomo. Quando ci si attesta su queste posizioni, io ritengo che, sebbene non espressamente detto, si voglia mettere in dubbio la persistenza, nella canzone, di un sottofondo populistico che neppure al preziosismo stilistico del Di Giacomo fu dato di ignorare. Sono convinto che tra il canto popolare e la canzone, quale si strutturò nell’ ‘800, ci sia non dico una affinità, ma un’ accertabile consanguineità, perché unica è la matrice da cui ebbero vita.
Sono convinto e non lo sono solo io – che i canti popolari – per i quali esistono migliaia di monografie riguardanti tutte le regioni – non siano altro che antiche canzoni, regolarmente create da un poeta e un musicista, colti o incolti non ha importanza, o da rapsodi, menestrelli, improvvisatori, cantanti girovaghi, tramandati di generazione in generazione e giunti a noi, dalla bocca del popolo, ancorché manipolati, alterati, deformati. Ma in origine erano canzoni, forse strambotti, forse villanelle, forse canti ancora più antichi.
Non parlano di canzoni (siamo d’accordo che « canzone » è un nome generico, però da non intendersi nel senso proprio che ebbe in origine) cantate dai napoletani, di mattinate, di serenate del loro tempo, i cronisti e i diaristi del ‘300, ‘400, ‘500 e ‘600? Ma questo è un discorso che andrebbe troppo per le lunghe.

IL SEICENTO

Il ‘600 è il secolo dei melodramma. L’opera lirica, nata a Firenze nel Carnevale del 1597, rappresentata a Venezia per la prima volta nei 1637, fa capolino a Napoli nel 1651, in un teatrino fatto erigere, nel suo palazzo, per l’occasione, dal Viceré Conte d’Onatte.
Fa capolino proprio quando la villanella volge al termine. Infatti, era accaduto che, da semplice e spigliata ch’era all’origine, la villanella s’era andata complicando passando per le mani di compositori ligi al canone, che la vollero classicheggiante e in forma polifonica, in una versione molto apprezzata negli ambienti aristocratici e intellettuali, mentre le villanelle di stampo popolare continuavano ad essere monodiche. La contrapposizione contribuì all’affievolirsi dell’ispirazione, per cui se le villanelle aristocratiche andarono sempre più scadendo ivi un italiano approssimativo e stracco, quelle popolari furono intrappolate in un dialetto bastardo – tra lingua e parlata – per far sì che potessero essere capite, e quindi apprezzate, anche al di fuori di Napoli. A dar forza a questo guazzabuglio ci fu, inoltre, una sorta di suggestione collettiva secondo la quale tutti, indiscriminatamente, potevano scrivere villanelle. Perciò, improvvisazioni a non finire, con produzione enorme, è vero, ma musiche scialbe e testi insignificanti, se non scurrili. Ormai, la villanella poteva considerarsi tramontata e, con il suo tramonto, apriva un vuoto pauroso nella canzone napoletana.
Voci sporadiche come quelle di Giulio Cesare Cortese, Sgruttendio e dei girovaghi poeti e musicisti Sbruffapappa, Masto Roggiero ed altri, non bastano a risollevare le sorti della canzone, avvilita fino al punto da far scrivere a Giambattista Basile:

Sse canzune de musece de notte,
De poete moderne
- Nun toccano a lo bivo.
O bello tiempo antico - O canzune massicce,
O parole chiantute
O cunciette a doi sole,
O museca de truono -
Mo tu nun siente mai cosa de buono!

Che in traduzione, grosso modo, vuoi dire: Queste canzoni di poeti moderni, che suonano di notte, non toccano il vivo! O bei tempi antichi, o canzoni belle, con parole ben fatte e concetti robusti, o musica da fare sbalordire… Oggi, tu non senti mai una buona cosa!
Tuttavia, il segno di questo secolo è pur rimasto. Un canto isolato, è vero, ma di significato particolare per la storia della nostra canzone, si a per la novità della musica, sia perché, dopo oltre tre secoli, ancora si ascolta, con diletto. E’ la celebre Michelemmà (Michela è mia!), attribuita a quel genio bizzarro e proteiforme che fu Salvator Rosa, nata dopo la rivoluzione di Masaniello.
Ritiene qualcuno ch’egli vi abbia messo solo qualche nota della sua estrosa chitarra e qualche rima della sua accesa fantasia. Ma e meglio lasciar le cose come stanno, tanto più perché, a parer mio, quell’imperativo Michela è mia! a sarebbe proprio del temperamento ardente e tempestoso del pittore celebre e consono ai suoi atteggiamenti guascovi.
Altre canzoni, come si è detto, furono scritte, oltre che da improvvisatori e girovaghi, da poeti dialettali che ben si possono definire i padri della nostra letteratura popolare: Giulio Cesare Cortese, Sgruttendio, Giambattista Basile.
Nonostante tutto, Napoli continuava a concedersi canti e letizia, se si deve dar credito a dei versi della metà del ‘600 già pubblicati da Sebastiano Di Massa nella sua «Storia della Canzone napoletana
» e ricavati da un «Contrasto curioso tra Venezia e Napoli» (Ed. Salani, 1879).

A Napoli non c’è malinconia
si passa tutti i giorni in balli e canti;
di giorno e notte c’è sempre allegria
con Zanni, Pasquarielli e commedianti.
Le mie dame con pompa e bizzarrìa
son corteggiate dai suoi fidi amanti,
quando vanno a Posillipo l’estate,
con dolci suoni e dolci serenate.

IL SETTECENTO

Nel secolo degli abatini cincischiati e dei poeti che si compiacevano ancora – sia pure in modo minore – nel manierismo spesso barocco e vuoto del precedente seicento, i teatri sono affollatissimi. Fiorisce la musica, fiorisce la commedia dialettale, furoreggia Pulcinella. Si rinnova e si trasforma (1707) il teatro de’ Fiorentini, si apre al pubblico il teatro Nuovo (1724) e s’inaugura il primo San Carlino. Il teatro San Bartolomeo viene abbattuto per la costruzione di un altro teatro lirico più bello e più moderno voluto dal Re Carlo III, il San Carlo (1737); si ricostruisce il San Carlino, il secondo, destinato alla gloria della maschera napoletana, si inaugura il teatro del Fondo (oggi Mercadante) e una diecina di anni dopo il San Ferdinando (1790).
Intanto, nell’ottobre del 1709, nasceva l’Opera buffa, e con essa, s’apriva un degno rifugio alla canzone napoletana; era una delle più belle occasioni perché potesse riprendere a battere le ali.
L’Opera buffa, che può vantare i nomi di Cimarosa, Paisiello, Pergolesi, Leo, Vinci, Fioravanti, Jommelli, Piccinni, e, tra i poeti, Giambattista Lorenzi, il Cerlone (che sforna ben 56 copioni), Federico, Trinchera, Palomba; l’Opera buffa, che annovera capolavori dal titolo: Lu frato nnammurato, Il matrimonio segreto, Il Socrate immaginario, sin dal suo nascere trattò soggetti e ambienti popolari. Le scene e le parti cantate, che all’inizio erano completamente in dialetto napoletano, a distanza di tredici anni, nel 1722, divennero una mistione di lingua e parlata con l’introduzione di personaggi quali baroni, duchi, contesse, ecc. Ovviamente, cambia anche l’ambientazione.
La canzone napoletana, dall’opera buffa, trasse nuova e fertile vita: duettini, marinaresche, arie amorose, cavatine, minuetti scritti per quelle scene diventarono le canzoni del popolo e dei salotti aristocratici. Spesso avveniva che una canzone popolare antica, elaborata o trasformata dagli autori delle opere per essere inserita nei loro spartiti, ritornava in voga. La villanella Vurria che fosse ciàola, del ‘500, è stata elaborata, o musicata, chissà per quante volte e s è cantata per trecento anni!
Numerosissime le canzoni tratte da opere buffe, come si può osservare attraverso le pubblicazioni dedicate a questo genere di musica e, per tutte, la ponderosa monografia di Michele Scherillo, «L’opera buffa».
Tra le più note canzoni del ‘700, non appartenenti a lavori teatrali: La canzone di Zeza e ‘O guarracino, una bellissima tarantella, quest’ultima, cantata ancora oggi, ma pervenute a noi, purtroppo, senza i nomi degli autori.
I canti politici che già nei passati secoli avevano sottolineato tanti avvenimenti, rifiorirono verso la fine del ‘700 con le rivoluzioni, le guerre e i martiri del ‘99, per sfociare, nella metà del secolo successivo, nei più accesi canti patriottici inneggianti all’Unità.

L’OTTOCENTO

Anche a Napoli, i segni premonitori di nuovi tempi diventano sempre più visibili; gli spiriti sono inquieti, le coscienze disorientate. Si chiede di rinunciare a tante cose del passato che sono un po’ come la loro pelle, sebbene tanto martoriata, per tanti napoletani; si propongono modelli di vita d’importazione, si agitano problemi sonnecchianti sotto la coltre dei secoli.
Gli eventi precipitano, le opposte fazioni si scontrano sanguinosamente. Napoli smette di essere la città vagheggiata da Goethe per trasformarsi in un campo aperto alla crudeltà, alla ferocia. Eppure, tra il continuo altalenarsi di speranze e delusioni, trova ancora linfa per cantare sul filo di un estro che, qualche decennio più tardi, conoscerà il punto più alto del suo splendore.
I canti politici, anche in questo secolo, si diffondono anonimamente, utilizzando vecchi motivi o inventandone dei nuovi; la satira serpeggia anche negli ambienti vicini alla Corona, non risparmiando neppure il re e la regina.
Né la musica buffa, che aveva avuto il suo massimo splendore nel settecento, conosce stasi, perché i musicisti, seguendo egregiamente le orme dei predecessori, continuano a comporre opere degne di elogio.
Scrivono versi di canzoni don Giulio Genoino, Marco D’Arienzo, Domenico Bolognese, Michelangelo Tancredi, Michele Zezza, Ernesto Del Preite, Mariano Paolella, Achille De Lauzières, affiancati da musicisti dai nomi altisonanti, o modesti: i fratelli Ricci, Saverio Mercadante, Gaetano Donizetti, Pietro Labriola, Luigi Biscardi, Francesco Florimo, Acton, Coen, ed altri.
La canzone napoletana, invece, superato alla mcv peggio il primo quarto di secolo, ha un continuo susseguirsi di alti e bassi. In questo periodo fa spicco il nome di un musicista geniale e attivissimo: Guglielmo Cottrau, un francese venuto in Italia, col padre, al seguito di Giuseppe Bonaparte e che non seppe più lasciare le ridenti zone partenopee, innamorato com’era di Napoli.
Nel 1825 il Cottrau prese a dedicarsi ai nostri canti popolari e ne raccolse un’infinità. Si deve a lui, quindi, se tante gemme della nostra canzone sono arrivate fino a noi. Tutti gli ambienti si appassionarono a quei canti rimaneggiati e pubblicati a centinaia dal Cottrau. D’altronde, intorno a quegli anni, canzoni originali se ne scrivevano pochine.
Nel 1889, scoppia, come un bengala iridescente, uno dei più popolari successi della canzone napoletana di tutti i tempi: Te voglio bene assai, dell’ottico Sacco (vedi), cantata da tutta Napoli, e fuori, per oltre trent’anni. Un successo pieno, completo, persistente fino al punto da rendere noiosa la canzone con l’avvio che diede a diecine di imitazioni, risposte, parodie, trascrizioni.
Tre anni prima, nel 1836, c’era stato un altro grosso successo: Lu cucchiere d’affitto. Ma da Lu cucchiere - escludendo Te voglio bene assai - occorre aspettare dieci anni (1846) per registrare un’altra popolarissima canzone, che fu lo spasso dell’intera città: quella Don Cicculo a la fan farra, che ispirò commedie, un romanzo ch’è un fumetto ante litterarn, (il primo che si conosca, e non soltanto fra quelli stampati a Napoli), parodie e le solite innumerevoli risposte.
Nello stesso anno si distingue per la sua grazia insolita e la buona fattura dei versi: Lu prunìno ammore di Luciano Faraone, musicata da quattro o cinque compositori, tra noti ed ignoti. Altri successi furono – per parlare dei più significativi – la famosa Santa Lucia (Sul mare luccica) - del figliuolo di Guglielmo Cottrau – del 1848; Lo cardillo (1849), Li capille de Carolina (1850), Luisella (1856), Dimme na vota si (1858).
Nel settembre del 1860, Garibaldi è a Napoli. Palazzo Angri, dalla augusta linea architettonica, ospita il Generale. Il popolo esulta, la regina del Mediterraneo è finalmente nelle braccia della madre Patria, un’onda di entusiasmo pervade la penisola tutta.
E i canti s’intensificano, l’arte guarda a cieli più grandi, si snoda ormai senza ceppi. Le canzoni, anche se, per la maggior parte, qualitativamente inferiori alle precedenti, non si contano. Napoli, però, continua a cantare quelle degli anni passati, a preferire i canti raccolti dal Cottrau e dal Florimo. Qualche canzone accettabile fino al 1870; poi, nel decennio successivo, musiche fiacche, degne dei versi scialbi, prosaici e volgari che le accompagnavano e che venivano stampati, come sempre, su migliaia di fogli volanti. E dire che a Napoli, il numero degli editori interessati alla canzone, era più che considerevole.
Nel 1880, la canzone, per merito di un musicista raffinato e già noto per le sue romanze, subisce una svolta decisiva. Luigi Denza, con la collaborazione del giornalista Peppino Turco, compone Funiculì-funiculà, che per la sua scoppiettante musica e la semplicità dei versi, passa di bocca in bocca, di città in città, di nazione in nazione, invadendo tutti i continenti e facendo gemere di continuo i torchi dell’Editore Ricordi che in pochi mesi deve stampare, per far fronte alle richieste, centinaia di migliaia di edizioni per pianoforte.
La canzone farà scrivere, qualche anno più tardi, a Giuseppe Errico: «Funiculì-funiculà si può storicamente considerare l’avanguardia delle canzoni napoletane moderne, come quella che ha aperta ed indicata la via a tutte le altre. Con Funicuiì-funiculà la canzone napoletana ha trovato la sua nuova forma in fatto di snellezza, di agilità, di movimento e di espressione».
Da qui prendono l’abbrivo musicisti che saranno l’orgoglio della canzone napoletana: Vincenzo Valente (già in attività al 1870), Mario Costa (1882), Eduardo Di Capua (1884), Giuseppe De Gregorio (1890), Salvatore Gambardella (1893), per non citare gli altri.
Ma c’è un più grande avvenimento da segnalare: nel 1882, comincia a farsi sentire la voce più limpida di Napoli: è Salvatore Di Giacomo, un albero che darà frutti deliziosissimi, fiori dai più teneri, dolci profumi, bellezze non intraviste mai, alla nostra poesia e alla canzone.
Con Di Giacomo altri poeti esemplari, s’affacciano al nuovo orizzonte. Il dinamico, vulcanico Ferdinando Russo – il più napoletano e sensibile poeta nostro – che ci ha lasciato montagne di poemetti, poesie e canzoni, fonti di immagini e ricchezza di parlata schiettissima; l’introspettivo e sfortunato Giovanni Capurro, l’esuberante Pasquale Cinquegrana, e altri ancora.
La canzone si perfeziona, si fa più bella; prospera.
I caffè fanno a gara per trasformarsi in sale e salette di trattenimento: una piccola pedana, un pianoforte, pochi strumenti, due o tre cantanti; ed è così che vediamo nascere i «caffè-chantants». Napoli, appunto negli ultimi due decenni dell’ ‘800, raggiunse il suo massimo splendore nell’arte, nella poesia e, per naturale riflesso, nella canzone che fu lanciata da Santojanni, Bideri, Izzo, Ricordi, con tatto, perizia ed abilità, quest’ultima aggiornata ai tempi che correvano. Si stamparono belle edizioni illustrate da autentici artisti e si organizzarono concorsi, spettacoli e audizioni.
I cantanti pullulavano e il pubblico chiedeva di ascoltarli, senza pause.
La canzone napoletana viveva la sua più bella stagione.

IL NOVECENTO

Il nuovo secolo, trova la canzone napoletana che domina nei teatri della città. Le Piedigrotte, che negli anni addietro venivano presentate soltanto nelle mattinate, invadono i teatri stessi con regolari spettacoli serali e dominano nei varietà che fanno a gara nel diventare sempre più lussuosi e attraenti, nel disputarsi vedettes internazionali. Sbocciano cantanti che vengono richiesti in tutta Italia ed alrestero. Emilia Persico, Carmen Marini, Elvira Donnarumma, Gennaro Pasquariello, Diego Giannini, Nicola Maldacea, Peppino Villani, Armando Gill, mandano in estasi le platee della penisola.
I poeti si susseguono senza soluzione di continuità; varianti e innovazioni sono apportate da Libero Bovio, Ernesto Murolo, Rocco Galdieri, Eduardo Nicolardi, E. A. Mario che, oltre per i versi, va citato anche per le musiche le quali, al loro apparire, costituirono una fresca novità. Musiche prodigiose sono composte da Ernesto De Curtis, Rodolfo Falvo, Nicola Valente, Evemero Nardella, Pasquale Fonzo, Giuseppe Capolongo, Enrico Cannio, Ernesto Tagliaferri, Gaetano Lama, Emanuele Nutile.
Un numero enorme di canzoni si devono a questi autori, e a tanti altri; e tutte improntate a dignità artistica che promuoveva lusinghieri apprezzamenti.
Certamente, come in tutti i tempi, anche in quel periodo aureo ci furono degli intrusi, degli squallidi epigoni che non fecero certo onore alla canzone di Napoli. Il tempo, però, è stato galantuomo con tutti
Qui, volendo attenermi a quanto si riferisce in giro, dovrei far punto perché, secondo gli assunti diffusi, la canzone napoletana sarebbe finita verso il 1938 e cioè con Na sera ‘e maggio di Gigi Pisano e Giuseppe Cioffi, che ben si possono definire gli eredi più diretti dei primi, autentici nostri autori. Ma io, scevro da qualsiasi intenzione polemica, mi domando com’è possibile procedere a tal funerea fissazione di data se, successivamente, abbiamo avuto – provo a buttare giù qualche titolo – Luna rossa, Anema e core, Munastero ‘e Santa Chiara, Scalinatella, Scapricciatiello, Serenatella sciuè-sciuè, Guaglione. Qualche titolo soltanto, ripeto, perché tanti altri fanno ressa nei miei ricordi.
Invece accetto senz’altro l’opinione di coloro che ritengono, nell’attuale momento, la canzone napoletana in piena crisi. Una crisi, però, che non mi pare autorizzi, per la sua stessa natura, ad intonare il de pro fundis, poiché non è da escludere che debba essere più propriamente riguardata come una fase di transizione, cioè uno stadio in cui la nostra canzone cerca succhi e fermenti nuovi che le diano diritto alla sopravvivenza.
Del resto, a Napoli, tutti gli orizzonti artistici sono nebulosi e quel poco di cielo azzurro che ti sembra di intravedere, non sai mai se e veramente azzurro oppure ti sembra tale per un fenomeno di… daltonismo.
Diciamo, allora, che Napoli è percorsa da quella che a molti piace definire come febbre di crescenza. Aspettiamo che la febbre passi, che la convalescenza sia superata, e chissà che non ritroveremo, con Napoli tutta, la nostra canzone più agghindata che mai.

Ettore de Mura – Enciclopedia della Canzone Napoletana
Casa Editrice
IL TORCHIO, Napoli 1969

LA CANZONE NAPOLETANA
NELLE SUE MANIFESTAZIONI

CANZONI A BALLO

Il ballo è sempre stato, sin dai tempi più remoti, nella coscienza di tutte le popolazioni, indipendentemente dal loro grado di civiltà. Ricordava avvenimenti, concorreva a celebrare riti religiosi, s’introduceva nei cerimoniali funebri e nelle pratiche degli stregoni. In genere era accompagnato, oltre che dagli strumenti in uso, dal canto. Napoli seguì la sorte comune a tutti gli altri popoli, e fino ai ’700, le canzoni a ballo ebbero la preponderanza sugli altri canti. Anzi, parecchie canzoni, secondo notizie che diventano sempre meno vaghe a partire dai ’400, prendevano addirittura il nome dai nuovi balli.

LA BALLATA, che vuoi significare proprio «aria da cantare ballando», pur diventando, nel 1300, per merito dei poeti toscani, un componimento dotto e aristocratico in Italia, come in Francia e nella Spagna, continuò ad essere popolarissima a Napoli, fino al ’600. Lasciando da parte lo strambotto, che spesso integrò ballate e canzoni a ballo, e trascurando nomi di balli di poca importanza, si elencano, qui di seguito, quelli che ebbero maggiori rapporti con la canzone napoletana:

LA VILLANELLA – Nata a Napoli verso la fine del ’400, da un ballo campestre – come è stato scritto nelle precedenti pagine – ebbe vita fino al ’700.

LA CHIARANTANA – Già nota agli inizi del ’400, fu diffusissima a Roma e a Firenze nel secolo successivo. Nello stesso periodo fu nota a Napoli.

LA CATUBBA – Ballo napoletano, (alcuni lo dicono proveniente dalla Turchia), impiantato sull’imitazione dell’andatura degli ubriachi, nato verso la fine dei ’500, fu uno dei più comuni fino a tutto il ’600. Il delizioso poeta napoletano Filippo Sgruttendio scrisse alcune poesie per catubbe, pubblicate nel suo canzoniere «La tiorba a taccone».

Lo TORNIELLO – Ballo in giro, sorta di girotondo. Noto in mezza Europa e in Italia, dai toscani fu chiamato Carola. Diffuso nel Medio Evo, si voleva che fosse nato in Francia, anche se oggi è provato trattarsi di un antico canto popolare inglese. A Napoli si ballò specialmente nel ’500 e nel ’600.

Figurazione del Ballo Lo Torniello. Disegno di Callot, dalle Oeuvres – Ediz. 1701

LA CASCARDA – Fu nota in tutta la penisola e si ballò (in tempo 3/4 e 3/8) anche a Napoli, nel ’500 e nel ’600. Bartolomeo Zito, nel commento al poema napoletano di G. C. Cortese, elenca dodici titoli di canzoni a tempo di Gascarda, fra cui: Serenella, Gunto dell’uorco, Roggiero vattuto, Io vao cercanno e nen nne saccio nova, Guarda de chi me jette a nnammorare.

BALLO DI SFESSANIA O LA LUCIA – (Dal quale derivò anche La Ntrezzata o L’Imperticata, una sorta di danza delle spade, che si svolgeva agitando dei bastoni inghirlandati di fiori). Trattasi di danza figurata e molto movimentata, formata da numerose coppie. Jacopo Callot (1592-1635) la illustrò in una serie di deliziosi disegni pubblicati nel 1620. Secondo il Del Tufo, fu importata da Malta. A Napoli, con le sue varianti, fu nota verso la metà del ’500 e la sua popolarità aumentò col passare degli anni, per diminuire nella seconda metà del ’600, finché non sfociò nel più celebre e affascinante ballo napoletano di tutti i tempi. La Tarantella, (vedi).
Versi di Ntrezzate e Lucie si possono leggere nel succitato Canzoniere di Filippo Sgruttendio, ma anche altri poeti e musicisti si cimentarono in questo genere.

LA GAGLIARDA – Proveniente dalla campagna romana, fu in voga in tutta Italia e in Europa. Dall’inizio dei ’500 ebbe vita fino alla metà del secolo successivo e si unì alle più apprezzate danze delle case principesche e reali. Il suo ritmo, vivace, era di 3/2. Una gagliarda a forma di villanella fu musicata da Baldassarre Donato (Chi la gagliarda, donne vo’ imparare – Venite a noi che siamo mastri fini), e pubblicata a Venezia nel 1558. Ma, prima ancora, nel 1541, era stata musicata e pubblicata da Giovan Domenico Del Giovane.

LA CIACCONA – A parte l’importanza che ebbe nel campo della composizione musicale classica italiana e straniera, la ciaccona fu conosciuta a Napoli come ballo licenzioso, importato dalle prime compagnie teatrali spagnole, verso il 1620. Purificata dai maestri di ballo napoletani, conquistò rapidamente i giovani napoletani e fu ballata fino alla metà del ’700. Le canzoni a tempo di ciaccona, che fu anche volta al maschile, il Ciccone, furono abbondanti, e moltissime se ne trovano nelle opere buffe del ’700. Solamente la Tarantella poté far dimenticare a Napoli questo ballo.

IL ROGGIERO – Doveva essere una delle tante musiche a ballo create dal girovago Masto Roggiero «rapsodo della canzone» e autore di arie e villanelle. Il Roggiero si cominciò a ballare a Napoli sulla fine del ’500 e resistette fino al primo ventennio del ’700.

LA TARANTELLA – Nel ’700, con la comparsa della Tarantella, i napoletani abbandonarono quasi del tutto gli altri balli per riversarsi, entusiasti, sul nuovo ritmo. La Tarantella, nata nella seconda metà del ’600 dalla Sfessania, dalla Ntrezzata e da altre ancora (vedi pagine precedenti), col suo tempo indiavolato, 3/8 o 6/8, con le sue figurazioni di corteggiamento e conquista, si presentava, infatti, come una delle danze più attraenti. Nelle campagne, sulle spiagge, sulle terrazze di Posillipo, nelle piazze, nelle bettole, a suon di nacchere e tamburelli, – quando non intervenivano altri strumenti come la chitarra, di gran moda, clarinetti o flauti – non si ballava che la Tarantella. Bastava un gruppo di ballerini di tarantella per attirare folla e forestieri. Diverse diecine di scrittori stranieri l’hanno descritta nei loro libri, in diari e corrispondenze, e parecchi musicisti classici si ispirarono ad essa per comporre musiche sullo stesso ritmo, da Auber a Chopin, da Liszt a Mendelssohn, da Rossini a Bellini, da Donizetti a Ricci, autore quest’ultimo, di una delle più celebri tarantelle, inserita – ballata e cantata – nell’opera buffa Piedigrotta. Di canzoni a tempo di tarantella si è parlato, e ancora se ne parlerà, per l’abbondanza delle composizioni avutesi nell’ ’800 ed oltre, fino ai tempi nostri. Aggiungo, per chi ne volesse sapere di più, che è di pochi anni fa, 1963, la pubblicazione di un bei saggio – davvero esauriente – di Renato Penna, sulle origini e le vicende della tarantella. Per la prima volta si congettura come essa possa risalire al tempo della corte aragonese, cioè al 1450.

Nei ’600, e maggiormente nel ’700, le ragazze del popolo impazzivano per il ballo, tanto da far dire al poeta Velardino Bottone nella sua commedia Lo Barone de Trocchia, musicata da Leonardo Vinci e rappresentata al Fiorentini nel gennaio del 1721: Non c’è fegliola a Napoli -che non saccia de museca e d’abballo (Non v’è ragazza a Napoli che non sappia di musica e di ballo). Si ballava, oltre la Tarantella, il Minuetto – d’origine francese e apprezzato dalle case blasonate – la Controdanza e la Gavotta, arrivate a noi sulla eco dei successi inglesi. In conseguenza, i “maste abballature” (i maestri di ballo) che nel ’500 formavano soltanto un piccolo gruppo, divennero tanto numerosi da avvertire la necessità di inserirsi nelle corporazioni di cui già facevano parte musicisti, cantanti, girovaghi e simili, tutti beneficiati da regolamenti che prevedevano soccorsi per disoccupazione, malattie, invalidità, maritaggi per le figliuole, sepolture. Qualcosa di più, come si vede, dei moderni istituti di assistenza. Canzoni per argomenti sacri, con musiche appropriate, esistevano da anni; ma, essendo diventato, di fatto, ‘indispensabile il ballo nella vita dei napoletani del ’700, alcuni ecclesiastici credettero opportuno di scrivere canzoncine religiose sui motivi dei ballabili più in voga. Ho il piacere di possedere un raro libriccino riportante alcune di coteste canzoncine, stampato nel 1744 da Giovanni Di Simone: «Canzoni nuove, divote, belle – Secondo i suoni della chitarra, e sì d’ogni altro strumento – dedicate – a’ valenti sonatori – da un Fedel di Gesucristo”. Nella prefazione, “il Fedel di Gesucristo” racconta che “udendo suoni e canti d’un gran valente maestro sonator di chitarra, il quale fu da un buon amico a lui recato per sollazzarlo; i canti udendo, lasciamo stare senza forma di metro, di rime, laidi assai per la materia sporca, scandalosi a concupiscenza svegliare infocare… ” si convinse dell’utilità di adattare canzoni spirituali ai ritmi in voga, sì che, pur soddisfacendo al desiderio di ballare dei giovani, avrebbero, però, evitato di portare nocumento alla salute delle loro anime. Anzi, lui stesso ne scrisse e ne stampò. Fra le tante, figurano: Della potenza del Padre Eterno (al suono nominato della tarantella), Dell’Incarnazione di Gesucristo e morte (al suono di Roggiero), A Nostra Signora (adattabile al suono della Siciliana), A Nostra Donna Dolorata (al suono flebile simile al Roggiero), e via di seguito. E non si commenta, perché, indubbiamente, nel “Fedel di Gesucristo” c’era una perfetta buona fede! Compreso quel peccatuccio di presunzione commesso nel definire «belle» quelle sue canzoni.

Ed ora non dispiacerà, credo, che io qui inserisca un accenno alle «quadriglie» di Carnevale ed ai «Cartelli», che non erano altro se non carri allegorici, come quelli che si sono sempre visti alla festa di Piedigrotta, e programmi (cartelli) con poesie, o canzoni, presentati separatamente da categorie di piccoli commercianti o artigiani. Non hanno nulla a che vedere con le canzoni a ballo, è vero, ma con esse costituiscono pur sempre un interessante segno del costume dell’epoca. Verso la fine del ’600, a Napoli, con l’inizio del Carnevale, si usava intonare canti carnascialeschi ed allestire feste di cuccagna. Setajuoli, armieri, carrozzieri, berrettieri, macellai, e numerose altre associazioni di arti, mestieri e venditori, si organizzavano per dar vita alle manifestazioni note col nome di «quadriglie delle arti». I vari gruppi erano composti esclusivamente da uomini mascherati e indossanti vesti fantasiosamente strane; così acconciati, i gruppi si esibivano in balletti dinanzi al viceré, alla viceregina, ad alti dignitari e nobili, mentre i popolani, che tutt’intorno facevano corona, applaudivano o schernivano, a seconda degli umori. Dopo di che, i carri allegorici (quadriglie), percorso che avevano per intero la via Toledo, raggiungevano il largo di Palazzo per sostare proprio sotto il balcone donde si affacciava il viceré. Qui si cantavano le canzoni che ciascun gruppo aveva fatto comporre per l’occasione, appunto per magnificare la propria attività e far risaltare i propri prodotti che ne erano oggetto. Alla fine, i carri, traboccanti di ogni specie di commestibili (pani, prosciutti, capretti, salcicce, polli, formaggi e altro), venivano abbandonati al saccheggio della plebe che muoveva all’assalto tra violenze di. ogni sorta. Lo spettacolo era orrendo e gli effetti disastrosi: urla, pugni, calci, contusi, feriti, e del carro, compresi i buòi o i cavalli, non rimaneva nemmeno l’ombra. Le «quadriglie “, le troviamo ancora in voga verso la metà del ’700, senza, però, la selvaggia usanza della “cuccagna”. Cavalcate e carri allegorici continuavano a reclamizzare merci e prodotti, bottegai e commercianti; ciascun raggruppamento, con un esaltante manifesto, annunciava la propria esibizione, ne illustrava lo svolgimento e pubblicava la canzone, o la poesia, scritta di proposito. Il notaio Trinchera e Giacomo Antonio Palmieri, furono tra i più fecondi autori di poesie (come si è detto, si chiamavano ” cartelli “) per “quadriglie”, insieme con altri che sono rimasti sconosciuti. Alcuni titoli di chiara indicazione: Li padulane, Li panettiere, Li casadduoglie, Li maccarunare, Li canteniere, Li ciardeniere, Li pisciavinnole, Li chianchiere, e via di seguito. In altre pagine, se ne pubblica qualcuna.

La Tarantella, nel 1800, anziché tediare come tutte le cose che si ingurgitano in abbondanza, mantenne costante, anzi, accrebbe l’entusiasmo che aveva suscitato fino allora. Proclamata «ballo nazionale» nello scorcio del secolo precedente, continuò a interessare popolani, salotti eleganti, forestieri, scrittori, musicisti. Si formarono troupes di tarantella che al suono di nacchere e tamburelli nonché degli strumenti più di moda – violini, mandolini e chitarre – portarono la napoletanissima danza in giro per l’Italia e all’estero, comprese la Russia e l’America. Molte canzoni furono musicate su quel ritmo; tutti i compositori, dal primo all’ultimo, ne furono suggestionati. Tra gli altri: Labriola, Biscardi, Florimo, Cottrau, Acton. Ad essi seguirono quelli della nuova leva: Costa, con i versi deliziosi del Di Giacomo; Vincenzo Valente, Di Capua, Di Chiara, Gambardella, e, nel primo quarto del ’900, Nicola Valente, Cannio, Falvo, Tagliaferri, E. A. Mario e tanti, tanti fino ai giorni nostri.

VALZER ED ALTRE. Non mancarono, sin dai primi anni dell’ ’800, canzoni a Valzer, un ballo che, nato in Austria nella metà del ’700, non tardò ad invadere tutta l’Europa. Il suo tempo, 3/4, e il movimento variato – lento allegro e allegretto – ancora oggi ingentilisce un certo tipo di canzoni nostre. Neppure il tempo dei 2/4 della polka – danza nata in Boemia – passo inosservato ai nostri canzonieri (Cannio, nel secondo decennio del ’900, su testi spassosissimi fornitigli dal Capurro, di polke ne compose parecchie). Una canzone di Salvatore Di Giacomo e Vincenzo Valente, nel 1917 (Tango napulitano), sottolinea la popolarità del Tango in Italia, arrivato dal Messico una diecina d’anni prima. L’esempio era stato preceduto, e fu seguito, da altri poeti e musicisti. E occorre proprio dire che tutti i balli degli ultimi tempi: Fox, Shirnrny, Charleston, Rok n’roll, Beguine, Cha cha cha, hanno alimentato motivi di canzoni napoletane?

Vediamo, adesso, della nostra canzone, gli altri suoi generi e alcune sue manifestazioni:

MELODIA

E’ il genere più comune. Non ha una forma precisa, non ha tempo obbligato e non sfocia mai nell’allegro sfrenato. E’ la composizione più espressiva – com’è intesa universalmente e sin dagli antichi tempi – capace di suscitare nell’ascoltatore vibrazioni romantiche e commozione. E’ vicina alla romanza da camera, da cui, qualche volta, ha tratto anche ispirazione, ma è a carattere più popolare.

SERENATA

Trovò i primi accenti sui liuti dei trovatori e dei giullari in pieno medioevo. Le più dolci serenate le ebbero Firenze e Venezia. Sempre suonata di sera, sotto il balcone della fanciulla amata, siccome dettava la consuetudine, anche a Napoli ha espresso i più comuni trasporti d’amore, compreso il dispetto. Prevalentemente sentimentale, il suo ritmo è basato sul tempo 3/4 o 2/4; qualche volta, per soggetti allegri, è stato usato il tempo cS~ (tagliato). La canzone napoletana vanta gioielli di “canzoni a serenata”, e basterà citare: Maria, Marì del Di Capua, Scetate di Costa e Voce ‘e notte del De Curtis. MATTINATA E’ un componimento simile alla serenata, solo che, anziché di sera, o di notte, veniva cantato all’alba, per svegliare le ragazze, con una dichiarazione d’amore. Canzoni ispirate alla Mattinata sono state scritte fino ad oggi. Fra quelle antiche si ricordano: Primmamatina di Falvo (1912) e Buongiorno a Maria di E. A. Mario (1916).

Serenate e Mattinate, erano in gran voga a Napoli, sin dai primi anni del ’200, ed erano tanto frequenti da generare fastidio. Nel 1221, l’Imperatore Federico Il, per le tante istanze pervenutegli dai napoletani che protestavano contro i cantori – ed erano parecchi – che all’alba turbavano il loro sonno con canzoni d’amore, o dispettose, con un apposito bando vietò le Mattinate. Ma gli innamorati non si dovettero dare per vinti se un’altra ordinanza del 1335, di Roberto D’Angiò, che rinnovava il divieto, provocò l’arresto del notaio Jacovello Fusco perché faceva di continuo cantare ” mattinate ” sotto la finestra di una certa Giovannella De Gennaro, donna maritata ed onesta; la quale donna, restia all’insistente corte del Fusco, s’era rivolta al re perché offesa ed esasperata dalle canzoni triviali che le dedicava il notaio. Al genere delle Serenate si possono assegnare anche le Ciambellarie e le Macriate, che hanno avuto vita dal ’500 fino ai primi del ’700. Don Pietro di Toledo, fra i tanti meriti che ebbe durante il suo viceregno, represse innumerevoli abusi che si commettevano nella città; fra i tanti, verso la metà del ’500, quello delle Ciambellarie. Per dare l’idea di che cosa fossero queste deplorevoli manifestazioni riporto testualmente quanto scrive il Giannone (Storia civile del Regno di Napoli, Ediz. 1723 – Vol. IV -pag. 49): “Era si introdotto costume in Napoli che quando le donne vedove si rimaritavano, s’univan le brigate, e la notte con suoni villani, e canti ingiuriosi, andavano sotto le finestre degli sposi a cantar mille spropositi ed oscenità; e questi suoni e canti chiamavano Ciambellarie; donde ne sortivano molte risse, e talora omicidi; e sovente gli sposi per non sentirsi queste baje, si componevano con denaro, o altra cosa colle brigate, perché se n’andassero”. Di qualche secolo dopo furono le Macriate, consistenti in un oltraggio portato a quei mariti che, essendo stati traditi, meritavano, secondo un pregiudizio largamente diffuso, derisione. Di notte, si riuniva una comitiva di musici e cantanti che, fermatasi sotto le finestre del disgraziato, narrava, a suon di musica, le disavventure della coppia; il tutto, rinforzato da contumelie e invettive. Questo malcostume, è da notare, si propagò anche fra la nobiltà: infatti giovani blasonati spesso si servirono di Macriate per offendere la donna che li aveva respinti o abbandonati, non tralasciando di far cadere il loro livore anche sui mariti, narrando in musica atroci verità, ma, più sovente, soltanto delle malignità. Nella notte di San Martino, protettore dei mariti.., sfortunati, le Macriate si decuplicavano. Le leggi del vicereame, benché ritenute ferree per le severe pene che assegnavano a chi era arrestato per tale reato, nulla poterono contro questa incivilissima usanza.

BARCAROLA

Canzone ispirata al mare e in generale, alle donne dei marinai e dei pescatori. La sua musica è suadente, ha un tempo di 6/8 o 12/8 ed imita il movimento cullante di una barca. Sono degli ultimi anni del ’700 le prime barcarole napoletane, almeno quelle che si possono con sicurezza definire tali. Nell’ ’800 abbondarono, e alcune di esse ancora famose oggi, come la Santa Lucia di Cottrau, ‘A sirena di V. Valente, Luna nova di Costa, ‘O marenariello di Gambardella, fino alle più moderne Ncopp’a ll’onne di Fassone e Piscatore ‘e Pusilleco di Tagliaferri. Uno dei più geniali autori di barcarole fu il M° Gaetano Lama.

MANDOLINATA

Ha il tempo della Serenata, ma è scritta prevalentemente per essere accompagnata da mandolini o da strumenti che riescono a produrre ugual trillo.

CANZONE A MARCIA

Il suo tempo ritmico è il 2/4 o il 4/4, più raramente il 6/8. Sin dai tempi antichi ha regolato il passo dei soldati. La canzone napoletana l’ha adottato per quei soggetti a carattere militaresco anche se, i protagonisti, soffusi come spesso sono, di nostalgia per la donna amata e per il paese lontano, di marziale hanno ben poco. Anche i temi a carattere patriottico sono stati trattati dai nostri musicisti, con lo stesso ritmo. Uno dei compositori di maggiore spicco, nel genere di canzone a marcia, è stato, nel primo quarto del nostro secolo, il M° Enrico Cannio; per tutte, valga la bellissima ‘O surdato nnammurato.

LA MACCHIETTA

S’inquadra nel genere comico, ove sentimenti e atteggiamenti sono presentati di volta in volta, con spunti umoristici, satirici, ridicoli, ironici, grotteschi, arguti e scherzosi. Il suo scopo è di provocare il riso, od almeno un sorriso. La tnacchietta mette in primo piano un tipo, cerca il più possibile di ritrarne, deformandoli, i lati apparentemente comici, così come il vero artista della matita da un solo tratto caratteristico della figura che ha preso in oggetto, ricava una ben riuscita caricatura alterando, in piccolo o in grande, i punti che più sollecitamente lo hanno colpito. Nicola Maldacea, genuino asso della risata dal 1891, fu l’animatore, il numero uno del prestigioso “genere”. La musica della macchietta non ha un ritmo particolare perché la sua funzione è di far da sottofondo alla mimica del macchiettista. Sin dal ’600, la canzone napoletana ha avuto componimenti comici: Lo paglietta di Andrea Perrucci e Michelangelo Faggiolo; il ’700, tante ne trasse dalle opere buffe, e l’ ’800, come per tutti gli altri generi di canzoni, ne ebbe moltissime: Lo cucchiere d’affitto, Don Ciccillo a la Fan farra, Stò tanto ncuietato pe stu fatto, La melizia terretoriale, ecc. Ma qui, in verità, si tratta di canzoni buffe e non di macchiette vere e proprie. La macchietta si differisce molto dalla canzone buffa, che, si ricordi, rinvigorì le sue radici nella commedia musicale del ’700. Come ebbe origine la macchietta, l’apprenderemo dal suo ideatore: Ferdinando Russo, che ne parla in un articolo apparso su «La Tribuna» del 18 agosto 1925, dal titolo «Piedigrotta di oggi».

Or sono molti anni, dall’inizio della sua carriera di dicitore, Nicola Maldacea canticchiava con singolare espressione, le canzoni del tempo, Lariuld, Oilì-Oilà ed altre; ma non tutte, per mancanza quasi assoluta d’un volume – e direi meglio: d’un volumetto – di voce, poteva egli rendere con quella mirabile efficacia che lo ha fatto diventare celebre. Le canzoni, sia pure bene scelte e adattate alla vostra piccola voce, non sono per voi, gli dicevo una sera, dopo il suo debutto, che fu nondimeno una rivelazione, al «Salone Margherita», voi avete bisogno di un repertorio speciale, fatto di cose che non siano la vera e propria canzone. – E gli spiegai in che cosa consistesse questo repertorio; e per la prima volta gli parlai della macchietta. La macchietta era, per me che l’avevo ideata, una canzonetta appena cantata e un po’ sussurrata, che serbando tutto il carattere napoletano, doveva delineare tipi, non sospirare d’amore; e questi tipi, curiosi, comici, o grotteschi, dovevano essere scrupolosamente interpretati. Maldacea questo poteva farlo prodigiosamente. Ed avrebbe così dato un nuovo genere di composizione, più importante della canzone perché di contenuto psicologico, e appena bisognevole di un tenue commento musicale che non superasse il suono della voce, sì da lasciare emergere, in tutta la espressione più efficace e sostanziale, la qualità singolare del dicitore, cioè la incarnazione, presentata al pubblico, di un tipo della vita. – E chi me le farebbe queste macchiette? – Io. Così sorsero le primissime macchiette: L’Elegante, Pozzo fa ‘o prevete?, Il Cantastorie, Il Madro, Il Pompiere del teatro, Il Cicerone e tante altre. E il nuovo genere fu subito imitato perché accolto ed accettato, come una rivelazione, con entusiasmo indimenticabile. E durò un bel pezzo; poi, caduto in mano dei soliti guastamestieri, si andò deformando, senza logica, fino a degenerare in isconcezze e volgarità che non avevano alcuna ragione di essere. La macchietta, dopo il suo periodo d’oro, come avverte il caro Don Ferdinando, decadde verso il ’20, per riprendersi, trasformata e aggiornata, alcuni anni più tardi, quando il maestro Giuseppe Cioffi e Gigi Pisano, non disdegnando di rimetter su questo componimento spassoso, ottennero clamorosi successi con Ciccio Formaggio, Datemi Elisabetta, L’hai voluto te!, Mazza, Pezza e Pizzo, ecc. E Nino Taranto, che ancora oggi ne è l’interprete, può considerarsi l’erede ed il continuatore di Nicola Maldacea.

CANZONE DI GIACCA

Già in voga verso la fine del secolo scorso con soggetti che esprimevano desideri di libertà dei carcerati, atteggiamenti spavaldi di guappi, si consolidò nei primi anni del nostro secolo con soggetti di cronaca nera. Prese il nome di “canzone di giacca” perché il cantante, smesso il frak indossato per cantare gentili melodie, si ripresentava al pubblico in giacca e con un fazzoletto annodato alla gola, per apparire vero figlio del popolo. Un abbigliamento, insomma, che gli permetteva di interpretare con maggiore naturalezza una canzone di contenuto drammatico o guappesco, e sfociante, quasi sempre, in un’azione violenta, in un progettato, o consumato, delitto. La musica, che aderiva al testo ora con slancio impetuoso, ora con sottolineature passionali, non ebbe nessun modulo particolare sebbene da più di un compositore venisse usato il tempo 4/4. Molti autori si cimentarono in questo genere, anche il Di Giacomo con Tarantella scura. Ma il vero creatore della canzone di giacca fu Libero Bovio. Le tre parti della canzone di Bovio erano congegnate con tecnica sorprendente, tanto da apparire come la sintesi di un dramma in tre atti. Ne scrissero anche E. A. Mario, Francesco Fiore, ed altri. Fra i tanti interpreti della canzone di giacca, i più efficaci furono Gennaro Pasquariello e Mario Mari.

CANZONE SCENEGGIATA

E’ un lavoro teatrale il cui soggetto è stato tratto da una canzone. Già nell’ ’800, al San Carlino, l’Altavilla scriveva commedie sfruttando, a volte, il titolo di una canzone di successo, sicuro di richiamare pubblico. A sta fenesta affacciate!, Te voglio bene assaie, Don Ciccillo a la Fanfarra, fecero parte del suo repertorio. Eduardo Scarpetta, nel 1898, utilizzò un titolo del Di Giacomo: ‘E tre terature, per una sua nuova commedia. Maldacea, la Faraone ed altri comici, al Salone Margherita, nell’ultimo decennio del secolo, interpretarono scenette che prendevano lo spunto e il titolo da canzoni di successo. Ma la sua vita migliore, la canzone sceneggiata la visse tra il 1920 e l’ultimo dopo guerra. Una compagnia formata dal comico Salvatore Cafiero (vedi) e dall’attore Eugenio Fumo, portò ai sette cieli questo genere che, curato nei minimi particolari, richiamava uno strabocchevole pubblico ogni qualvolta il lavoro portava il titolo di una canzone cantata e ricantata. Per la cronaca, si deve dire che, precedentemente, sebbene in una formazione più ridotta, c’era già stata una compagnia di sceneggiate: quella animata dai cantanti Mimì Maggio, Roberto Ciaramella e Silvia Coruzzolo.

TAMMURRIATA

Canzone allegra in cui il tamburo, agitato dalla cantante, diventa protagonista, fra tutti gli altri strumenti accompagnatori. Anche le canzoni campagnole, purché abbiano ritmo, possono far parte delle cc tammurriate “. Bellissima la Tammurriata palazzola di Russo e Falvo, quelle scritte da E. A. Mario, da Tammurriatella (versi di Furnò) a Tammurriata all’antica (versi di Murolo) e Tammurriata nera (versi di Nicolardi); quella di Tagliaferri: Tammurriata d’autunno, e tante altre.

CANZONI DI PRIMAVERA

Le canzoni dedicate a quella ch’è considerata come la più bella tra le stagioni, ebbero un grande sviluppo nell’ultimo decennio del secolo scorso. Le musiche tenui, flautate, d’un allegretto piacevole e insinuante, avevano, in un certo senso, il carattere delle antiche pastorali.
E come ogni anno, di Piedigrotta, le case editrici bandivano concorsi, pubblicavano novità, organizzavano audizioni, così, a partire dalla fine dell’ ’800, quando il calendario segnava il 21 marzo, le stesse case facevano altrettanto per lanciare le canzoni di primavera, quasi si trattasse di una seconda Piedigrotta. La consuetudine durò per oltre trent’anni; poi si diradò e, infine, fu del tutto abbandonata. Uno dei più dotati compositori di canzoni primaverili e campagnole fu Giuseppe Capo-longo. (E’ Primmavera, Fronn’ ‘e cerase, Ammore ncampagna).

Non mi pare sia il caso di parlare, in queste note, anche perché gli argomenti richiederebbero particolari svolgimenti, dei Canti di malavita e dei Canti a figliola (appartenenti più al folklore che alla canzone); delle Canzoni religiose (scritte, come si è già accennato, in tutte le epoche e meritevoli di un discorso approfondito); dei Canti e delle Canzoni politiche (in massima parte di anonimi, specie quelle che riguardano le rivoluzioni del 1799 e 1848); delle Canzoni occasionali (scritte per avvenimenti importanti: la prima ferrovia, la prima funicolare, la ferrovia Cumana, l’invenzione della luce elettrica, della bicicletta, il variare della moda, ecc.). Né, ritengo, sia il caso di dar conto delle Parodie e del Duetto, due generi di canzoni che si spiegano da soli. Non mi resta, quindi, che parlare, sia pure fugacemente, della più importante festa napotana, “la festa delle feste”, come dicono i suoi amatori, e che ha tanti legami con la can zone: la Piedigrotta.

LA FESTA DI PIEDIGROTTA

Lasciando da parte documenti e leggende che desumano la festa di Piedigrotta sia la continuazione purificata di feste pagane e baccanali; trascurando le testimonianze del Petrarca e del Boccaccio che videro affollare l’allora piccolo tempio dedicato alla Madonna di Piedigrotta dai marinai della spiaggia di Mergellina, si può, con ragionevole certèzza, ritenere che il culto dei napoletani per la Grande Madre nella ricorrenza della Sua natività, sia cominciato verso la metà del ’409. Già prima, nel Santuario, ingrandito e abbellito più volte, si erano recati spesso sovrani, principi e ministri a pregare per grazie ricevute, ma le visite ufficiali dei regnanti ebbero inizio più tardi. “E’ probabile – scrive il Volpicella – che sin dal 1528 incominciasse l’usanza della visita reale o vicereale, e la rivista militare che l’accompagnava”. E le parate più o meno sfarzose, con carrozze e abbigliamenti eleganti dei nobili, sfilate di soldati, bande, fuochi d’artificio, navi che sparavano a salve, fiumane di popolo provenienti da tutte le città del Regno, durarono fino al 1861. Giuseppe Garibaldi – entrato in città -partecipò alla festa. L’anno successivo vi prese parte il Generale Enrico Cialdini. E fu tutto! I resoconti degli avvenimenti piedigrotteschi di oltre cinque secoli, sono sparsi in diari, guide e gazzette, e sono anche leggibili nel voluminoso e ben ordinato archivio della Basilica. E le canzoni? Scarse notizie. Si sa che durante il fanatismo per la tarantella, gruppi di popolani, nella notte della festa, ballavano nella grotta di Piedigrotta illuminata con torce, e nei viali della villa reale aperta al pubblico per l’occasione; e che, prima o dopo il ballo, si cantavano canzoni in voga. E’ dalla nascita di Te voglio bene assaie, (1839), che si comincia a parlare di «Canzoni di Piedigrotta» .

Impropriamente, devo soggiungere, perché durante la festa non è che si intonassero canti nuovi di trinca, bensì canzoni che, già conosciute in altre circostanze e ambienti, soltanto in un secondo momento erano diventate, per la loro orecchiabilità, patrimonio dei popolani, di quei popolani che, durante la notte del 7 settembre, aspettavano l’apertura del Santuario di Piedigrotta, alternando canzoni a vino e cibarie. La tradizione canora e festaiola s’interruppe nel 1861; fu ripresa qualche anno dopo, nel 1876, per iniziativa di un distributore di giornali, certo Luigi Capuozzo. I Sovrani, e le loro truppe, non partecipano più alla nostra festa? Ebbene, li sostituiremo con sovrani e truppe finte, si dovette dire il Capuozzo. Senza frapporre indugi, radunò gli amici strilloni, e organizzò quella che doveva essere la prima cavalcata storica di Piedigrotta. Poi ricomparvero i carri allegorici, si riprese a cantare canzoni scritte su misura per esaltare, questa volta, gli aspetti più folkloristici della festa o per richiamare l’attenzione sulla validità del soggetto del carro. In comune con le «quadriglie» di fine ’600, non restava che la propensione ad una gran scalmana da ricordare per tutto l’anno, scalmana nella quale la rapinosa conclusione di un tempo, era sostituita dal più modesto assalto a «ruoti» di melenzane di casalinga provenienza. La vera Piedigrotta delle canzoni la si può far coincidere con la nascita del caffè-concerto, allorché, in quelle sale, si prese l’abitudine di presentare piccoli gruppi di nuove composizioni nei pomeriggi, o sere, del 7, 8 e 9 settembre. Dal 1891, facendo valere una tradizione che, sebbene verde di anni, era ormai entrata nel costume dell’intera città, la Piedigrotta delle canzoni venne presentata nelle più importanti sale teatrali, di mattina, sempre nei medesimi giorni, e poi in normali spettacoli serali, tra agosto e settembre. Il seguito, è storia che abbiamo vissuto noi stessi.

Ettore de Mura – Enciclopedia della Canzone Napoletana
Casa Editrice
IL TORCHIO, Napoli 1969


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Enzo Jannacci – Quando un musicista ride…

Enzo Jannacci
Quando un musicista ride …

Cronologia di L. Cantarelli

Jannacci iniziò principalmente come musicista, suonando il pianoforte per cantanti diversi, nella scrittura dei testi ha alternato canzoni demenzial-fantasiose (sull’onda di F.Buscaglione) a canzoni socialmente impegnate con protagonisti soggetti marginali, i quali vengono amplificati PROPRIO dalle incertezze e dalla parlata incespicante di Jannacci…..

Fosse stato un fine cantante precisino, avrebbe reso inverosimile i soggetti cantati…

Il concetto viene così espresso ..Qui

..Caratteristica comune alle canzoni di Enzo che non rinunciano mai a contaminare il tragico col comico, giocando spesso, con maestria, su un crinale al limite tra i due elementi. Jannacci che, come l’amico Gaber e come Fabrizio De André ha passato una vita intera a gettare uno sguardo mai pietistico, ma semmai partecipe e commosso su tutta una parte di umanità che ora fa fine definire “gli ultimi” e che in tempi di sbornie ideologiche si etichettavano come “lumpenproletariat”: i reietti, i marginali, le persone che, normalmente non arrivano alla gloria di una canzone tutta per loro. Personaggi che, come dice lo stesso Jannacci, non sono di ieri, non risalgono agli anni ’50, ma in alcuni casi rimontano il tempo all’indietro fino ad arrivare alla prima guerra mondiale. Personaggi che vivono di piccolo e piccolissime cose: “Un dì lü l’avea menada a veder la Fiera/
la gh’eva un vestidin color del trasú / disse: “vorrei un krapfen… non ho moneta”/ “Pronti!” El gh’ha dà dés chili… e l’ha vista pü!” (Andava a Rogoredo). “Rivò un bel dì che era l’otto d’Agosto/ con la cravatta colore rosso/ Chissà perché, che io m’ero illusa /che mi volesse parlare d’amor!” (Chissà se è vero). “Lesto si avvia, con la cartella sotto il braccio/ male annodata la cravatta dell’Upim…” (Prendeva il treno). “Sporchi ancora del sudore / del lavoro appena smesso” (Qualcosa da aspettare). “Sia ben chiaro che non penso alla casetta/ due locali più i servizi, tante rate, pochi vizi” (Quella cosa in Lombardia). “Fu quando gli zingari arrivarono al mare che la gente li vide, che la gente li vide come si presentano loro, loro, loro gli zingari, come un gruppo cencioso, così disuguale e negli occhi, negli occhi impossibile, impossibile poterli guardare” (Gli zingari). “Giovanni telegrafista e nulla più / stazioncina povera c’erano più alberi e uccelli che persone / ma aveva il cuore urgente anche senza nessuna promozione / battendo, battendo su un tasto solo” (Giovanni Telegrafista). Un campionario di ultimi, di reietti, di barboni, di gente cunt su i scarp del tennis, ma visto dall’interno. Non è l’abito, è la fodera. Jannacci indossa i suoi personaggi e se ne fa voce e questa voce è straziata, spezzata, incerta e balbettante. La vera innovazione di Enzo Jannacci è nella voce con cui canta le sue storie. Credo lo abbia detto anche Umberto Eco e concediamoci il lusso di concordare. Un Jannacci che cantasse “pulito”, come si dovrebbe fare, non sarebbe lui e non riuscirebbe a inserire tanta forza drammatica, come ne mette nei suoi urlati, nei suoi “fortissimo”, nelle sue balbuzie o esitazioni. È un canto “disperato” che ridà voce ai disperati. ..”

Jannacci-Gaber

Come accaduto al suo socio di inizi Gaber, ad un certo punto della carriera discografica, il produrre musica e venderne non riusciva a coprire l’intera parabola creativa di questi artisti, come se la musica e la canzone fosse riduttiva rispetto alle loro necessità d’espressione, fosse un mezzo troppo sintetico..ristretto…mediato.
Entrambi, si rivolsero ad altro….Gaber svilupperà il genere del cosiddetto TEATRO-CANZONE in cui s’alternano monologhi e canzoni scritti entrambi dallo stesso Gaber..che per una trentina d’anni porterà in giro per teatri italiani..
Per Jannacci si aprirà negli anni settanta una parentesi di collaborazioni musical-artistiche con il cinema…con la composizione di diversi temi originali per films italiani .

Beppe Viola – Enzo Jannacci

 

Biografia
Sul piano musicale vanno rilevate le esperienze come compositore di colonne sonore per il cinema: “Romanzo popolare” di Mario Monicelli, “Saxofone” di e con Renato Pozzetto, “Pasqualino Settebellezze” di Lina Wertmuller” (che nel 1977 gli vale una nomination all’Oscar come miglior colonna sonora), e “Piccoli equivoci” di Ricky Tognazzi.
Come autore e arrangiatore collabora con Mina (per l’album “Mina quasi Jannacci”, nel 1977) e con Milva (per il disco “La rossa” nel 1980).
Nel 1979, in occasione dell’uscita dell’album “Fotoricordo” (uno dei suoi dischi migliori), realizza un programma televisivo, “Saltimbanchi si muore”; sempre nello stesso anno appare come ospite in un concerto di Paolo Conte al Teatro “Pier Lombardo” di Milano, dopo 5 anni di assenza dal palcoscenico (l’ultimo suo concerto risale al 1974).
E’ il preludio ad una tournèe trionfale, del 1981, che parte il 15 Febbraio da un Teatro Tenda montato a San Siro dall’A.R.C.I.: lo accompagnano musicisti come Flaviano Cuffari alla batteria, Dino D’Autorio al basso, Sergio Farina alle chitarre, Gilberto Zilioli alle tastiere, Nando De Luca al pianoforte e alla fisarmonica, Bruno De Filippi alle chitarre e all’armonica, e Pino Sacchetti e Paolo Tomelleri ai fiati.
Tornerà a scrivere canzoni con Cochi e Renato che a metà anni settanta hanno avuto il loro apice di successo televisivo e negli anni ottanta si rituffò nell’attività cantautoriale pubblicando nuovi album e portando in giro diversi recitals .. “Niente domande”, nel 1987 con “Parlare con i limoni” e nel 1988 con “Tempo di pace…pazienza!”.

 Testi delle canzoni


Intervista del 1995 sulla canzone d’autore, l’ispirazione musicale, l’importanza della vocalità…

 

Secondo lei la canzone d’autore è poesia?
Una volta di una bella canzone si diceva “fa ballare”….
Nanni Ricordi inventò i cantautori: il primo fu Bindi, che suonava la fisarmonica, poi Paoli, che faceva il pittore, Gaber…. Per quanto riguarda la risposta che devo darti… la poesia c’è ovunque. Una volta erano in pochi a capire la poesia… e la medicina. Poi i medici sono ignoranti… Però poi ho scoperto le canzoni di Paolo Conte: un connubio tra testo e musica che non c’è quasi mai. Solo in alcuni brani di Dalla, Guccini… Quelli sono rimasti i capisaldi della canzoni d’autore. Io in particolare sono diventato un cantautore perché le mie canzoni non le voleva cantare nessuno; dovevo cantarmele da me. Molte canzoni dei cantautori hanno un momento di successo interno sublime, ad esempio Dalla quando dice “di così tanti capelli ci si può fidare” o De Gregori “non è da un calcio di rigore che si giudica un giocatore”. Ma ce ne sono tanti altri, Bertoli… ; forse Conte è il più poeta, ma è anche il meno sociale. Io non ho mai avuto delle basi importanti, come De Andrè o Vecchioni: la forza della mia canzone era il canto dei disperati. Si poteva anche cantare i ricchi, i nobili e loro disgrazie, ma allora mi interessava quello con “le scarpe da tennis”, anzi, ancora prima “il meccanico di cappelli” che era una canzone surreale, fattami conoscere da Dario Fo.
Infatti a Torino ho intervistato Dario Fo e mi ha detto che in quel periodo vi fu una vera e propria rivoluzione per quanto riguarda i testi. Lei è uscito sulla scia del Cantacronache, si è rifatto alla scuola francese?
Certe soluzioni melodiche, armoniche sono apparentemente della scuola francese. Non voglio essere modesto: ho scritto un pezzo che si chiama Musical, che non faccio quasi mai, in cui ho trovato una simbiosi particolare tra la melodia e ciò che volevo dire. E la gente poi se ne accorge, come La fotografia a Sanremo.
In Storia della canzone italiana Borgna riporta una frase di Umberto Eco secondo il quale lei è stato rivoluzionario nell’uso della voce, nel modo di cantare. Quanto conta in una canzone la voce, l’interpretazione?
E’ tutto, soprattutto in pubblico. Se ti presenti al pubblico hai bisogno di comunicare, e questo vale sempre, sia per le cose comiche, grottesche, sia per le cose tragiche, disperate.Lei sembra sempre molto distaccato nelle sue interpretazioni, ha un modo di fare distante, lontano dalle cose che dice…
Questo è il sistema: non deve esserci niente di retorico. Devi tagliare, buttare via tutto quello che c’è di retorico.Guccini mi ha detto che secondo lui tra la canzone e la poesia c’è una grande differenza: la poesia è più elitaria. In questo senso, secondo lei, il testo di una canzone deve avere degli accorgimenti diversi?
Proprio Guccini che è uno dei maggiori poeti che abbiamo… Io ho più di cinquant’anni – più o meno siamo tutti della stessa età – e sono convinto che siamo stati troppo attenti a certe cose, perché avevamo un certo ritegno. Sembrava che il grande pittore il grande architetto, da Renzo Appiano a Giacometti, facessero cose al cui confronto noi sembravamo dei saltimbanchi. Invece non è vero, prendi una canzone di Paoli, una delle prime, “ sassi sono le mie parole”: chiamarla poesia allora era un’eresia. Però è poesia: vale molto di più una canzone che ti tocchi il cuore, che dica delle cose, che migliaia di persone che vanno ad un comizio.Secondo lei trattare la canzone come tema sociale, quindi politico, è una scelta estetica?
Sì, certo. Il più grande è stato Ivan Della Mea: lui ha dedicato la vita alla canzone politica, io lo ammiro molto. In un momento difficile, in cui ce n’era proprio bisogno, in cui noi eravamo un po’ vacillanti, lui e Gaber hanno avuto molto coraggio. Gaber era più portato all’anarchia, a vedere le cose con rabbia e distacco, Ivan invece era una vera e propria dichiarazione di guerra.Lei tratta quasi sempre di temi sociali: lo fa perché la canzone deve anche essere provocazione?
No, provocazione no. La canzone deve lasciar turbati, per le pause, per la melodia, per quello che dici, per come ti senti… Ci sono sere infatti che non mi va di cantare, per qualunque motivo. Non capita solo a me, ma a chiunque abbia un impegno sociale, culturale: se stai bene canti, vai in platea, altrimenti… c’è una frase: “non esistono tutti i pubblici per gli artisti”. Può capitare una sera che non stai bene, che hai dei problemi grossi, e la gente se ne accorge. Io non voglio coinvolgere troppo: mi interessa che ascoltino, che si crei quell’affiatamento, che, quando escono, abbiano capito.Per Ruwet nelle canzoni di Brassens testo e musica, presi separatamente, non hanno nulla di notevole. E’ la loro unione a dare un risultato straordinario… Secondo lei la simbiosi tra questi due elementi è importante?
In Brassens sì. Anche in Conte. Io ci ho messo un anno a scrivere La fotografia, a far collimare decentemente testo e musica. Bisogna ascoltare e ascoltarsi: una cosa non deve svilire l’altra.

E’ d’accorto con Zumthor, secondo cui i cantautori possono essere considerati gli ultimi poeti orali?
La poesia è una pozzanghera che io vedo in un certo modo, tu in un altro. Basta che vi sia nostalgia, serenità, una pace che non si riesce a trovare… è questo che dà l’input alla poesia vera e non alla retorica. Non si scrivono poesie: si scrive.

Se dovesse definire la canzone d’autore?
E’ un tipo di poesia minore abbinata ad un tipo di dialettica musicale intensa. Sto pensando al pezzo di Dalla quando dice, parafrasando un canzone napoletana, “ti voglio bene, ti voglio bene”. A nessuno viene in mente che sia una cosa che riguarda il suo animo, l’animus romantico, tragico, di questo ex-ragazzo che lanciando questo urlo…
Io non ho mai pensato che No tu no fosse un tipo di poesia di diversi; semmai era un urlo disperato della gente che ho sempre cantato, i disperati, i disadattati, gente che fatica ad andare avanti. Per questo sono d’accordo con Eco ed Eco è d’accordo con me: il diverso è colui per il quale noi siamo diversi.
Io spezzerei una lancia a favore di uno dei nostri più grandi poeti e compositori: Claudio Baglioni. Lui ha abbandonato per scelta di cantare l’amore delle ragazzine, per cantare l’amore per la gente: da I vecchi a Le ragazze dell’Est… Canta benissimo, sa abbinare meglio di noi le cose tra loro. Poi è anche giovane e bello… Pochi ne parlano, invece Claudio ha tanto da dare ancora.

Chi erano i suoi modelli, a chi si rifaceva?
Io accompagnavo Sergio Endrigo negli anni Sessanta: suonavo il piano e dovevo pagarmi gli studi in medicina; lui ha avuto la gentilezza di farmi lavorare, di prendermi come pianista per le sue serate. Un giorno capitammo alla Bussola (c’era ancora Bernardini), vidi Gilbert Becaud che provava e pensai: se un giorno dovessi fare quel mestiere, lo vorrei fare come quello lì.

Sempre Zumthor sostiene che la canzone è avvantaggiata sulla poesia, perché oggi la poesia è muta. Il successo maggiore della canzone è quindi dato dalla voce…
Gli aedi non potevano fare a meno dell’elemento musicale. Lo stesso Ungaretti, che voleva leggere lui le sue poesie, in una scala di valori molto più alta era un cantautore .

Non trova che la poesia oggi si sia allontanata dalla vita quotidiana?
Io sono per la poesia popolare. Che Guevara ha scritto delle cose bellissime. Ci sono poeti in Brasile, a Cuba, che cantano le loro poesie anziché recitarle: la poesia ha bisogno del supporto della musica, ancora oggi. E la gente ha bisogno di queste cose; ci vorrebbero più cantautori, più canzoni di qualità in un mondo dove è imperante il karaoke. Tanto i soldi li guadagni comunque, sia che canti puttanate, sia che fai canzoni belle, di valore.

Lei ha scritto molte canzoni in dialetto: è una carenza dell’italiano o ne è un arricchimento?
C’è il problema della comprensione: se io canto le canzoni in milanese a Peschici nessuno capisce un’ ostia; quindi se devo andare a cantare a Sanremo davanti a milioni di telespettatori canto in una lingua che tutti capiscono. Già gli inglesi sono avvantaggiati; se io fossi nato in America No tu no ve la dovevate sorbire per altri quarant’anni…

Altre interviste online: 1 -2-3-5-6-7-8-9-10-11-12-13-14

La video-playlist..

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07. Canti di miniera, amore, vino e anarchia

Simone cristicchi – Canti di Miniera,Amore, Vino e Anarchia

Ogni luogo dove andiamo a cantare..si trasforma magicamente in OSTERIA

Sito Ufficiale CristicchiSito del comune di Santafiora

Un articolo estivo su “Repubblica” ..

Ho conosciuto il coro di minatori grazie a un amico che mi ha portato a Santa Fiora, paese sulle pendici del Monte Amiata – racconta il cantautore romano – La prima volta li ho sentiti cantare in una cantina: sono rimasto folgorato e mi è venuta subito l’idea di portarli su un palco vero davanti a un pubblico più vasto. Così è stato, abbiamo costruito insieme lo spettacolo cantando le loro canzoni alternate a monologhi sulle loro storie”.

Cristicchi ha cominciato un lavoro di ricerca e di recupero di questo repertorio di canzoni tradizionali che vengono tramandate oralmente e che sono strettamente legate alla vita dei minatori. Contrariamente al buio e alla fatica delle loro condizioni di lavoro, i canti sono allegri e variopinti, come i giorni di festa in cui venivano eseguiti.

“Alla ricerca musicale si è affiancato il tema della memoria – prosegue – incontrando le persone e i parenti dei minatori, morti sempre troppo giovani. Alla fine è diventato uno spettacolo di teatro e canzoni, che ha acquisito un valore civile e sociale perché racconta lo sforzo dei minatori che hanno contribuito a ricostruire l’Italia nel dopoguerra”.

“Ho incontrato molte persone, ho visitato altre miniere, anche in Sardegna” dice Cristicchi, diventato un esperto. “Il coro in particolare ha contribuito raccontandomi storie e aneddoti, ora riportati nei monologhi in cui cerco di dire al meglio e con le loro parole quello che era il loro mondo. Ho voluto che restassero così come li ho visti in quella cantina, perché hanno un modo naturale di stare sul palco, con una semplicità e una purezza che sono la forza dello spettacolo”.

Ogni serata è diversa dall’altra perché cambiano gli ospiti. “Camilleri va abitualmente in vacanza a Santa Fiora ed è stato semplice coinvolgerlo nello spettacolo, ha accettato con entusiasmo, lui come Laura Morante, nata a Santa Fiora, che torna nel paese di origine. Il bello è che rimane un progetto aperto, che si arricchisce di richieste in posti meravigliosi che si riempiono ogni volta, ed è impreziosito dalla partecipazione di Alessandro Benvenuti, Ginevra Di Marco, Mannarino. Mi hanno già dato la disponibilità Ascanio Celestini, Gianmaria Testa, e anche Erri De Luca che sarà a Torino”.

* * * * *

la storia del corominatori ..

Il Coro dei minatori di Santa Fiora si costituì in occasione della partecipazione alla trasmissione RAI “Voi ed io” condotta da Ernesto Balducci, nel 1977. Prima di allora, il gruppo (Tizzo, Amerigo, Lellone ecc.) che avrebbe costituito il Coro, era solito cantare in maniera estemporanea nelle osterie, soprattutto il sabato e la domenica: “ci si trovava – riferisce il Binda, uno dei protagonisti originari – da Natalina, al Mambo, da Smeralda o da Boccabella [tipiche osterie santafioresi che non esistono più]. La domenica era tutto un canto.Normalmente si cantava senza accompagnamento musicale, solo le voci, con l’uso del bèi-boi. Principale animatore del Coro era Tizzo, che, insieme ad Amerigo, faceva spesso la prima voce. Poi c’era Lellone, minatore, impegnato politicamente. Quando si andò la prima volta a Firenze (1977), si viaggiò con il furgone di Aldo Balducci e si dormì a Badia Fiesolana. Avevamo portato qualche fiasco di vino per noi (si sentiva ai microfoni il glu-glu quando riempivamo i bicchieri) e un paniere di castagne per Ernesto”.
Il Coro partecipò poi al Festival del folklore canoro amiatino organizzato dal Circolo “La melangula” (ne era principale animatore Ennio Sensi), a varie manifestazioni organizzate per sostenere la lotta dei minatori contro la chiusura delle miniere, al Festival dell’Unità di Grosseto e di nuovo alla trasmissione RAI “Voi ed io”, ospite di Balducci, nel 1978. Secondo Binda il gruppo non è stato in vita più di due-tre anni perché l’inserimento di nuovi elementi creò attriti e problemi.Così Balducci presentava il gruppo alla RAI nel 1977:”Questa mattina gli ospiti della trasmissione non sono personaggi illustri ma un gruppo di minatori del Monte Amiata, precisamente di Santa Fiora. Sono dieci amici, scelti da me non con criteri politici o sindacali; non so nemmeno di preciso a quale partito appartengano, a quale sindacato siano iscritti, per chi votino. Sono amici d’infanzia che ho ritrovato via via nei brevi soggiorni estivi al mio paese, nelle osterie dove insieme con loro anch’io ogni tanto mi ritrovo per parlare del nostro passato e per cantare, rinnovando così certe gioie antiche che in un tempo tanto crudele sembrano quasi impossibili. Insieme con loro rivivo le emozioni di una vita terribilmente beffata dalla miseria, come loro stessi sapranno dire, eppure ricca di virtù e di sentimenti che rappresentano ancora un patrimonio straordinario per noi. Sono, i minatori qui presenti, come l’ultimo residuo di un mondo antico. Rassomigliano straordinariamente ai nostri genitori, a mio padre e ai loro rispettivi padri. Questi miei amici hanno salvato un tipo di umanità schietta che nemmeno tutti gli operai hanno salvato; spesso, infatti, essi, nel clima della civiltà dei consumi, hanno ambizioni e modi di vivere che rassomigliano molto a quelli borghesi. Questi miei amici minatori conservano un’autenticità umana, una fierezza che li tiene distanti dalle ambizioni e dai conformismi della società di oggi. Vorrei presentarvi… anzi facciamo una cosa, presentatevi da voi, dando il vostro nome e cognome e, se volete, anche il soprannome, che è un’altra finezza della cultura popolare. Ecco, comincia, tu.
I minatori: Gabriello detto Lellone, Evangelisti Luigi detto Tizzo, Panichella Aldo detto Binda, Bani Giuseppe detto il Treccino, Bindocci Mario detto Pipetta, Uberti Eraldo detto Bronzone, Balducci Aldo detto Maconne, Domenichini Amerigo detto Gerbi, Martinelli Mario detto il Ghego, Celli Dante.”Le canzoni presentate alla trasmissione del 1977 furono 5: La Puscina (con una variante: il Coro canta “…andando a spasso alle Cascine” invece che “… andando a spasso alla Puscina”), Vallerona, Lisa di Santino, Il mulinaro e La miniera (la famosa canzone di Cherubini-Bixio). Le prime tre sono eseguite con la tecnica del “bèi”; le ultime due con stile corale.
Nel 1978 il Coro, nuovamente ospite della trasmissione di Balducci, eseguì 4 pezzi: Oh bella bella e Stornelli sanatafioresi (“Ti credi d’esse’ bella…, strofe documentate dal Galletti nel 1913), eseguiti con la tecnica tradizionale del “bèi”, Venite sull’Amiata, un pezzo di attualità dedicato alla crisi mineraria composto dal Coro stesso, e Un amore a Santa Fiora di Alfio Durazzi, detto “Il Menestrello” (che in questa occasione accompagnò il gruppo suonando la chitarra).
Molte altre le canzoni che il Coro interpretava dal vivo (ne abbiamo un’idea dalla cassetta autoprodotta Ricordando Tizzo che raccoglie registrazioni diverse e fatte in più occasioni), quali Maremma, Quando la notte gira per incanto, Bussa bussa (la porticella), Liolì liolà, La campagnola, Pescator di Feniglia, Era d’estate.Dopo lo scioglimento del gruppo, la sigla de “I minatori” fu ripresa da Alfio Durazzi che costituì un proprio gruppo , la cui esperienza è documentata da due cassette autoprodotte nel 1983 , caratterizzato dalla presenza di due chitarre, l’abbandono della tecnica del bèi (ma non dei controcanti) e la preponderanza di pezzi d’autore (oltre 1/3) nella scelta del repertorio.Tra il 2003 e il 2004, su impulso dell’associazione Consultacultura, nasceva un nuovo gruppo di musica popolare che riprendeva, come chiara forma di omaggio e continuità con il repertorio del gruppo degli anni ’70, la sigla Coro dei minatori.L’organico è variato nel tempo e, ad un nucleo “storico” stabile – Giuliano Martellini, Piero D’Amario e Lino Nucciotti alle voci, Lucio Niccolai alla chitarra e Giuliano Travi alla fisarmonica – si sono aggiunti via via, nel corso del tempo, altri componenti. Il Coro, che si riunisce settimanalmente a Consultacultura (Santa Fiora, Via Marconi 93), con l’immancabile “merendina” – “il nostro menù è il vino”, ma, insomma, anche un po’ di cacio, di salame, di salsiccia e, a volte qualche zuppa di funghi e fagioli o un’acquacotta – è attualmente formato da: Giuliano Martellini, (cl. ’48), ex forestale, pensionato,prima voce; Piero D’Amario (cl. ’45), mobiliere, prima e seconda voce bassa; Lino Nucciotti (cl. ’28), ex vetturino con muli, prima voce, controcanti e cori; Lucio Niccolai (cl.’52), insegnante di lettere, ricercatore e coordinatore del Coro, chitarra e, occasionalmente (finché gli altri non hanno imparato i pezzi) prima voce; Giuliano Travi (cl. ’43), detto “il genovese”, ex operaio Sip ed ex “camallo”, fisarmonica con “50 anni di folklore” alle spalle; Renzo Verdi (cl. ’56), operaio e Sindaco di Santa Fiora, prima voce, controcanti e cori; Gianluca Detti (cl ’57), detto “Mocone”, gestore del Franchino garage (luogo d’incontro prediletto del Coro) e della Locanda Laudomia a Poderi di Montemerano, controcanti e cori; Ennio Sensi, (cl. ’50), insegnante di lettere, esperto di tradizioni popolari santafioresi, cori; Enzo Marelli (cl. ’28), detto “Tascapane”, ex cavatore, cori; Mauro Bernacchi (cl. ’53), libero professionista, cori; Stefano Battisti (cl. ’56), impiegato, cori; Giammarco Nucciotti, (cl. ’89), chitarra, controcanti e cori; Antonio Pascuzzo (cl), direttore artistico del The Place, conduttore sul palco del Coro, prima voce e controcanto; Osvaldo Ballerini (cl. ’29), boscaiolo, legnaiolo e scalpellino, seconda fisarmonica.

Il gruppo ha visto crescere progressivamente la propria capacità di interpretazione, di recupero, riscoperta e valorizzazione autonoma del repertorio tradizionale (una cinquantina i brani in scaletta)e nel corso della sua pur breve vita associativa, ha già realizzato un cd, allegato al libro di Lucio Niccolai Canti di maremme e di miniere, amore, vino e anarchia, e partecipato a numerosi eventi e manifestazioni: dalla Triennale delle culture anarchiche e libertarie di Firenze, alla Festa di Santa Barbara a Charleroi (Belgio), da feste e iniziative culturali locali a rassegne di musica popolare (da Grancia di Grosseto, a Firenze, da Monticello Amiata al The Place di Roma, da Roselle – Parco di Pietra – a Frigolandia, da Sesto San Giovanni a Verona per il Tocatì) e ha collaborato recentemente (estate 2009) con Simone Cristicchi alla realizzazione di uno spettacolo dedicato alle miniere intitolato Canti di miniere, amore, vino e anarchia che ha percorso l’Italia in lungo e largo, da Torino a Melpignano, da Zevi di Verona a Ascoli Piceno.

Tra i pezzi più significativi del repertorio si ricordano: La Puscina, uno dei pochi pezzi del repertorio santafiorese dove si parla esplicitamente dei minatori; Oh bella, oh bella, un pezzo probabilmente originario di Santa Fiora (non se ne conoscono altre versioni simili nell’area circostante), nei cui versi compaiono delle belle e originali metafore; Vien la primavera, una canzone dai forti connotati sociali registrata nell’area di Castell’Azzara; Lisa di Santino, un pezzo originariamente strutturato con la tecnica del bèi; Stornelli (Bella se voi veni’) con strofe già documentate e raccolte nell’Ottocento; Vallerona (un luogo topico del viatico dei minatori verso la Maremma e le Colline metallifere); Volemo le bambole (diventata una hit con Simone Cristicchi) ed altri della tradizione popolare, ma anche rielaborazioni autonome del Coro a partire da stornelli e strofe già documentati tra la metà dell’Ottocento e i primi anni del Novecento da Stanislao Bianciardi (1840 circa), Tigri (1869) e Galletti (1913), quali, Serenata, La monella, Mamma non mi manda’ alla fornacina, Oh gentilina, No no alla guerra.

storia..

SITO quasi ufficiale con info e news..

*****

E.Balducci era nato a Santa Fiora e il papà faceva il minatore…altra tempra di preti quelli di quella generazione post-concilio oh YES!

http://www.fondazionebalducci.it/balducci_01.htm

l’unica canzone popolare di quella zona che conoscevo e’ Maremma amara..
http://archiviotradizionipopolarimaremma.comune.grosseto.it/index.php/tradizione-orale/canto-popolare
in questo sito si trovano alcuni testi di canto popolare maremmano e si riparla della tradiz dei canti di maggio

Caterina Bueno.
http://www.corodeglietruschi.it/cdcaterina.htm

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06. La tradizione del Maggio in Toscana

Qui

Altro Approfondimento

La tradizione del Maggio

La tradizione del “maggio” che si festeggia ancora in Toscana deriva dalla antiche feste pagane, dedicate alla dea Flora, con cui si accoglieva la stagione pri

maverile. L’etimologia del maggio è legata a Maja, una delle più antiche divinità laziali, la madre di Ermes di origine greca; questa dea della fertilità agreste nel Medioevo subì l’influsso delle popolazioni nordiche che introdussero nel rito centrale della festa l’albero, simbolo di rigenerazione e di forza, che ancora oggi compare in tutte le manifestazioni dove si celebra la ricorrenza.

Ci sono due forme con cui si celebrano questi riti, la prima prende il nome di maggio lirico, la seconda maggio drammatico.
Il maggio lirico si svolge nella notte fra il 30 aprile e il primo maggio (l’antico calendimaggio): gruppi organizzati si muovono per poderi e case della campagna: quello drammatico è invece una vera e propria rappresentazione scenica con tanto di testo basato su una storia cavalleresca, mitologica o religiosa.

IL MAGGIO LIRICO

Testimonianze di queste rappresentazioni sono assai diffuse e ben conosciute nella letteratura, non solo popolare. In Toscana fin dai tempi di Lorenzo il Magnifico si organizzano manifestazioni per celebrare l’inizio della stagione “dei fiori”. L’usanza di offrire un alberello alla donna amata, portandolo davanti alla sua abitazione ed accompagnando il gesto con poesie e musica è testimoniato da illustrazioni e testi scritti:
Ben venga Maggio
e il gonfalon selvaggio,
cantava in una sua lirica Agnolo Poliziano. Da alloro l’usanza si tramanda nei secoli fino ai nostri giorni. Valga per tutte questo “coro di contadini” del XVII secolo tratto dalla Serenata rustico civile (fatta a varie ville di Castello la sera antecedente al primo giorno 1° di maggio). Si tratta di un canto di maggio scritto da Francesco Baldovini ed inserito in un suo dramma scherzoso; la maledizione che conclude questa serenata è ancora oggi attuale nelle maggiolate toscane, in particolare nel Mugello.

TRUPPA DI CONTADINI

No’ siam gente tribolata,
fame e sete ci trascina ;
e giugnendo ov’è brigata
facciam festa alla cucina ;

diamo altrui spasso e piacere
ma vogliam mangiare e bere.

Però dateci frittate,
quarti a lesso, e quarti arrosto,
uova, cacio, e carbonate,
mangeremo il sol d’Agosto.
Non è tempo d’indugiare
date quae, che state a fare ?

Chi ci dona è un uom galante
e di collo non ci casca,

chi non vien poi di portante
no’ l’abbiam di posta in tasca.
Chi ci dà molto più riabbia
chi non dà gli dia la rabbia
chi non dà gli dia la rabbia.

Ed ecco riproposta la maledizione in un moderno canto di maggio proveniente da Barberino di Mugello, con le strofe che augurano la mala sorte a chi non offre doni:

Che v’entrasse la volpe nel pollaio
E vi mangiasse tutte le galline

Che v’entrassero i topi nel granaio
E vi muffisse il vin nelle cantine
Un accidente al padre e uno alla figlia
E il rimanente a tutta la famiglia.

Anche canti e balli accompagnavano fin dai tempi più remoti la sera del calendimaggio, come questa antica quartina che è stata rintracciata in una canzone del maggio datata 1614:
Lasciamo ir malinconia
Da che poi di Maggio siamo
Canti e balli noi facciamo

Quel ch’ha esser convien che sia.

Così ancora oggi, riprendendo le antiche usanze, in varie parti della Toscana (Mugello e Maremma ma anche lucchesìa e pisano) gruppi di giovani e di fanciulle fra la notte del 30 aprile e il primo di maggio, si recano di casa in casa, nelle aie dei contadini accompagnandosi con suoni e canti. Ad ogni visita il poeta chiede con una o più ottave improvvisate il permesso di entrare, celebrando le lodi della famiglia e augurando una buona annata di raccolti, mentre uno del gruppo detto alberaio reca l’albero (in antico majo), simbolo di felicità e di buon augurio; dopo il saluto si chiederanno con un canto di questua doni in natura (oggi si accetta anche il denaro), magari salutando con una serenata le fanciulle o le signore presenti. Con i doni raccolti (in grosso corbello portato a spalla dal corbellaio) si organizzerà poi la ribotta, festa collettiva con pranzo a cui intervengono tutti i maggerini (o maggiaioli) ma anche chi ha portato doni e desidera partecipare al rito collettivo. In Maremma questa tradizione è ancora molto sentita e raccoglie sempre ampi consensi da parte della popolazione non solo rurale.
Tutti gli anni il poeta, su tematiche contemporanee, compone un nuovo testo che si accompagna alla musica rituale.
La squadra dei maggerini, ognuna nel suo costume tradizionale, può variare a secondo dei luoghi; generalmente è composta da uno o più poeti, dall’ alberaio che reca l’albero simbolo della fertilità, dal corbellaio che è addetto alla raccolta dei doni; seguono i musicisti con gli strumenti (fisarmonica) e i maggerini cantori; in epoca recente sono stati accolti nel gruppo anche le donne che prima non vi prendevano parte.
Aggiungiamo a questa usanza, che viene detta del maggio profano, una variante religiosa: il maggio sacro o delle anime purganti, dove invece di propiziarsi con canti e balli la buona stagione, si chiede un suffragio per le anime dei defunti, celebrazioni simili si svolgono ancora nel Mugello con estensione anche al di là dell’Appennino toscano, dove esiste, nel modenese, un maggio delle ragazze. Anche in questa forma si ripete il rito della questua.
Da segnalare che il repertorio di canti viene quasi sempre offerto dal gruppo agli ospiti pubblicato in fogli volanti se non addirittura libretti stampati.

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05. Breve storia dell’ottava rima in Toscana

BREVE STORIA DELL’ OTTAVA RIMA IN TOSCANA


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di Alessandro Bencistà

LE ORIGINI

L’origine moderna della poesia in ottava rima (narrata e/o improvvisata) è da legare al canto dei trovatori che, con la diffusione delle lingue volgari venute d’oltralpe furono accolti nelle corti d’Italia, specialmente in Sicilia a quella di Federico II e poi in tutta la penisola. Contrasti che ci sono pervenuti da questa primitiva “scuola” appartengono all’ area genovese, siciliana, lombarda, umbra. Sarà poi Firenze, la città della nascente borghesia, a raccogliere il vastissimo patrimonio di canti, contrasti, poemi, favole e quanto altro fosse gradito al numero sempre crescente di abitanti che si stava ammassando entro la cerchia delle mura e nell’immediato contado; l’ambiente più frequentato per questo spettacolo popolare era la piazza, nel caso nostro quella del Mercato Vecchio e l’altra vicina di San Martino, ambedue situate nell’area dell’antico centro della “cerchia antica”.
Da qui può partire una sommaria ricerca sulla nascita e diffusione del canto estemporaneo, che trovò subito il suo metro adatto nell’ottava rima, siciliana e toscana; quella toscana (ABABABCC) deriva da un componimento in lingua francese, “Au renouvel de la douçur d’esté”, del poeta Gace Brulé, che si può datare sicuramente fra il 1180 e il 1185.

Questo rimatore provenzale era senz’altro molto conosciuto alla corte di Carlo d’Angiò, ciò porta a concludere che anche l’ottava toscana, come la siciliana sia stata importata dalla Francia. Ciò ovviamente, nulla toglie al peso storico dell’iniziativa di Giovanni Boccaccio, quando assunse l’ottava a strofe dei suoi poemi narrativi; fino al 1340, in quel suo splendido periodo giovanile risiede a Napoli, dove frequenta assiduamente la corte angioina, dove apprende questa maniera di cantare che al suo rientro fiorentino utilizzerà come metro nei suoi poemetti. una di queste prime ottave è presente nel suo Filocolo (1336) cui seguiranno, il Filostrato, il Teseida e il Ninfale fiesolano, che ebbero una grande diffusione in Firenze. Questo è da considerare un punto fermo nella storia dell’ottava, anche se la ricchezza e la complessità della storia, resta aperta sempre a nuove ipotesi derivanti da improbabili ma non impossibili scoperte.
Soltanto nella metà del Trecento inizia la diffusione nell’ambito popolare dei cantàri e poemetti in ottava (ma anche in terzine), cioè nell’età di Antonio Pucci e del poco più giovane Franco Sacchetti; sono loro i primi ad iniziare la storia del contrasto facendo uso del metro boccaccesco, metro che durerà con poche variazioni fino al Morgante del Pulci, alla Nencia di Lorenzo de’ Medici e ai Reali di Francia dell’Altissimo; si consegna così al Boiardo, all’Ariosto e al Tasso una vastissimo materiale di storie, leggende e cantàri senza il quale non sarebbe stato possibile creare quei mirabili capolavori di poesia e di avventura che sono i poemi cavallereschi.

Con questi poeti l’ottava raggiunge le massime altezze rinvigorendo ancora di più il modulo popolare che a “nuova vita restituito” giungerà con i suoi epigoni fino alle soglie dell’epoca contemporanea passando attraverso il Menchi, il Sestini, il Niccheri, la letteratura muricciolaia e i quattrocento libretti da due soldi (dieci centesimi) della editrice fiorentina di Adriano Salani.
Possiamo dunque ammettere che la nuova tecnica dell’ottava ha largamente contribuito a codificare in una composizione scritta moduli e tecniche della recitazione orale, evoluzione ormai da considerare qualcosa di più che un’ipotesi probabile che trova corrispondenza in una documentata elevazione sociale e letteraria dei cantastorie di cui alcuni, come il Pucci, non sono certamente rozzi o incolti come sono stati definiti da certa critica, ma attenti e fini conoscitori della produzione letteraria non solo volgare, ma anche classica; per rendersene conto basta leggere attentamente la produzione del campanaio fiorentino, dai sirventesi, alle rime, al Centiloquio, un’opera così vasta che si stenta a credere come il banditore ufficiale del comune di Firenze abbia trovato il tempo per comporla tutta.

LA POESIA ESTEMPORANEA DAL 1300 AL 1800

Alla fine del Trecento dunque contrasto e poema in ottava si sono ormai imposti e costituiscono un genere autonomo. Esiste anche un “Trattato dei ritmi volgari” scritto nella seconda metà del Trecento (del veronese Gidino di Sommacampagna) che rifacendosi ad un analogo trattato in latino del padovano Antonio da Tempo, descrive minuziosamente questa forma di poesia; ci dice che era cantato da due compagni su una stessa materia che i due si chiamano opponente e rispondente, che ciascuno canta una stanza di otto versi di undici sillabe di cui sei versi con due sole sillabe (rime).
Dopo il Pucci e il Sacchetti questi cantari in rima si estendono in tutta l’area della Toscana ed oltre, il Quattrocento sarà il secolo in cui si consolida il primato culturale di Firenze.
Contrariamente al “maestro” che non lasciò mai Firenze e le sue campane, i cantastorie che ne hanno adottato il modulo, giravano di città in città, di fiera in fiera, ovunque ci fosse una festa (laica o religiosa non fa differenza) e di conseguenza una folla numerosa disposta ad ascoltarli. Spesso venivano anche ingaggiati e pagati dai comuni allo scopo di dilettare popolo e signori. A Firenze avevano un luogo fisso, quasi uno spazio teatrale, ed era la piazza di S.Martino, poco distante da piazza della Signoria. Il popolo si sedeva su delle panche, su una più alta, come una specie di pulpito, saliva il canterino (da questa abitudine il nome di cantimpanca) che si esibiva accompagnandosi con una chitarra o liuto e dimostrando una certa pratica, affatto superficiale, della musica.
Il Poliziano, che non disdegnava le improvvisazioni in latino, lodò in un suo scritto un certo Antonio di Guido che ebbe tanta fama intorno al 1450. Alla sua morte l’umanista Luca Landucci (1486) ne parlò come il più celebre nell’arte di cantare all’improvviso.
Scrive un suo contemporaneo di averlo sentito cantare nella piazza di S.Martino le guerre d’Orlando con tanta eloquenza che pareva di udire il Petrarca, e considerando la fama secolare del poeta d’Incisa ci sembra un riconoscimento degno di nota.
Peccato che non siano pervenuti fino a noi esempi della poesia di questo Antonio di Guido.
Fra i molti fiorentini che si esibirono in questa piazza si racconta anche di Lorenzo il Magnifico, di suo figlio Piero e del Pulci.
I poeti improvvisatori fiorentini venivano ingaggiati da altri comuni per far divertire il popolo e i signori e, a quanto risulta, venivano pagati lautamente; in un documento rintracciato da Alessandro D’Ancona è registrata anche la cifra con cui alcuni di questi vennero stipendiati dal comune di Perugina che li ingaggiò a Firenze: quaranta fiorini d’oro, non pochi se si pensa che nello stesso anno fu “allogata” la celebre cantoria del duomo di Firenze a Luca della Robbia e abbiamo due documenti che riportano uno stanziamento di sei fiorini.
Si ricorda ancora un Cristoforo Fiorentino detto l’Altissimo che ridusse in ottave i “Reali di Francia” di Andrea da Barberino; visse costui dal 1480 al 1514, fu uno dei più celebri cantori in panca e i suoi versi furono anche stampati a Venezia nel 1514 e nel frontespizio dell’opera si legge Reali di Francia di M.Cristoforo Fiorentino detto l’Altissimo, poeta laureato cantato da lui all’improvviso, ma non si capisce bene chi fu a “laurearlo” poeta. Un altro suo poema, “La rotta di Ravenna”, fu stampato con la scritta: In S. Martino di Firenze all’improvviso, dell’Altissimo, poeta fiorentino, poeta laureato, copiato dalla viva voce da varie persone mentre cantava.
Una certa fama sicuramente ebbe il “gran lume aretin l’Unico Accolti” di cui parla l’Ariosto nel suo Furioso; Benedetto Varchi nella sua commedia “La suocera” ricorda infine le farse di Battista dell’Ottonaio e di Nanni Cieco. Un’altra testimonianza autorevole è quella di Benedetto Dei, che nella sua Cronica ci riferisce di cantari e sonetti.
In un codice della metà del Quattrocento si trova un serventese col “Bisticcio dell’acqua e del vino” che ancora nel secolo seguente sarà stampato col titolo “Contrasto de l’aqua e del vino” in ottave. E’ un tema ancora oggi caro ai poeti estemporanei, soprattutto considerando il fatto che in Toscana quasi ovunque il vino era considerato come un alimento indispensabile e in quasi tutti i contrasti sull’argomento si ricorda un celebre distico con cui una non meglio identificata poetessa alla quale era toccato di interpretare la parte dell’acqua, alzando il bicchiere chiuse l’ottava con questi versi : “Tu sei carina e lodar ti devo / mi ci sciacquo le mani ma ‘un ti bevo”.

L’OTTOCENTO

Vogliamo iniziare a parlare dei poeti estemporanei dell’Ottocento ancora con una donna, che non ha nulla a che vedere con le poetesse “colte” di ambito arcadico.
Stiamo parlando di Beatrice Bugelli di Pian degli Ontani, o la “poetessa pastora” come è anche conosciuta. Con lei incomincia la storia della poesia di improvvisazione moderna che, con ovvie mutazioni legate al divenire storico e sociale, giungerà pressoché inalterata fino ai nostri giorni.
In questa epoca la regione ove più si conserva e si sviluppa il canto popolare è la montagna pistoiese, o forse, senza nulla togliere ad altre regioni in cui la tradizione canora e poetica è ricchissima (lucchesia, Mugello, Casentino, Maremma) il caso volle che eminenti letterati e amanti delle tradizioni popolari, il cui studio si sviluppò enormemente in epoca romantica, furono assidui frequentatori di queste montagne e lasciarono nei loro scritti una ricca documentazione, Niccolò Tommaseo per primo con la sua Gita nel Pistojese dell’ottobre del 1832.
Ma ritornando alla nostra Beatrice Bugelli va ricordato anzi tutto che questa poetessa è ancora oggi, ad oltre un secolo dalla morte, un mito nella memoria storica e affettiva dei poeti estemporanei.
Nata nel 1802 nel comune di Cutigliano era figlia di uno scalpellino e rimase orfana di madre quando ancora era bambina; seguì quindi il padre per tutta la sua infanzia, dalla montagna pistoiese alla Maremma. Analfabeta come la maggior parte dei montanari, fu però dotata fin da piccola di una memoria prodigiosa che l’aiutò ad imparare a recitare lunghi brani poetici. Pur non avendo lasciato nulla di scritto è considerata fra i più grandi poeti improvvisatori dell’Ottocento. Non staremo qui a raccontare per esteso le vicende della sua lunga e dura vita, quasi tutta trascorsa nella montagna pistoiese; si occuparono infatti di lei insigni studiosi, da Niccolò Tommaseo, al Rossi-Cassigoli a Francesca (Ester Frances) Alexander, figlia di un ricco americano di Boston che la frequentò a lungo e che ci lasciò la maggior parte delle testimonianze scritte sul suo canto insieme ad una consistente mole di disegni e testi con musica, Francesca Alexander (la Toscana era diventata ormai la sua patria) fu la sola e grande amica di Beatrice, nella montagna pistoiese trascorse lunghi periodi della sua vita; di lei scrisse che “fu una delle donne più meravigliose che ho conosciuto…anche se la chiamano Beatrice di Pian degli Ontani, lei veramente vive a Pian di Novello…la sua casa è nella valle del Sestaione e se c’è un posto nel mondo più bello di quella valle io non l’ho ancora visto”.
Anche il Pascoli, giovanissimo, volle andarla ad udire dalla sua Romagna; Giovambattista Giuliani, famoso dantista e autore delle “Delizie del parlar toscano” scrisse di lei che “Ha un par d’occhi grandi e nerissimi…nella sua fronte rilevata e aperta sfavilla l’ingegno” (Sul vivente linguaggio della Toscana). Lo stesso Giuliani scrive in una lettera al Tommaseo: “Ebbi pur finalmente la consolazione di vedere l’ammirabile Beatrice di Pian degli Ontani e d’ascoltarne il soavissimo canto, incredibile a chi non l’ode. Ell’è davvero un portento di natura: il suo verso prorompe di limpida e larga vena, e si dispiega abbondante né fallisce mai…per divino istinto s’apre e diffondesi a cantare di poesia, mentre pur bada continuo al bestiame.”
Da questi autori riprendiamo le notizie di contrasti poetici a cui fu chiamata Beatrice, che continuò ad improvvisare fino alla vecchiaia e la sua casa fu ancora la meta di molti poeti. L’ultimo fra gli scrittori che la conobbe viva fu Renato Fucini che scrisse: “..al Pian di Novello, nella misera casetta dove io la vidi agonizzare”.
L’Ottocento non fu certo avaro di poeti improvvisatori, se ne enumerano ancora molti; tuttavia il giudizio che ne scaturisce non sempre è positivo come nei riguardi di Beatrice Bugelli; strimpellatori , mestieranti, triviali, grossolani, sono alcuni degli aggettivi con cui si conclude il giudizio sui poeti estemporanei; ma si tratta del giudizio della critica che ovviamente non intacca la fama di cui questi poeti godettero fra la gente comune.
Ricorderemo fra i più noti: Giuseppe Moroni detto il Niccheri, che ci ha lasciato fra le altre cose un poemetto in ottave sulla Pia de’ Tolomei su cui avevano già cantato Bartolomeo Sestini e Giuseppe Baldi. Lo sottolineiamo perché la Pia del Niccheri ebbe una fama straordinaria: diffusa prima su fogli a stampa, riuscì nel 1875 nei librettini della Casa Editrice Salani che arrivò a stampare e diffondere in più edizioni oltre 70.000 copie; uno sproposito per quell’epoca. Ancora oggi queste ottave del Niccheri risultano fra le più amate e conosciute delle storie in rima e vengono ricordate a memoria in tutta la Toscana.
Fra i poeti ottocenteschi citeremo ancora Anton Francesco Menchi, nato nel 1762 a Cucciano nella montagna pistoiese, fu come scrisse il Giannini, il più celebre cantastorie e poeta popolare del suo tempo in Firenze. Racconta un contemporaneo, Giuseppe Arcangeli, che improvvisava nei giorni del marcato nella Piazza del Granduca (Piazza Signoria) e richiamava intorno a sé una gran folla di campagnoli, quando suonando il suo tamburello a sonagli faceva uscire come per incanto da una cassetta una faina addomesticata; fu avverso alle idee rivoluzionarie che venivano dalla Francia, cantò gli orrori della novella Babilonia (la Rivoluzione) la morte di Luigi XVI, e la cattura di Papa Pio VI; contrariamente a certi suoi contemporanei che celebrarono le campagne e le vittorie di Napoleone, Menchi fu autore di un lungo canto in cui condannò aspramente le sue guerre “che fecero morire miglioni d’uomini” e infine ne celebrò la caduta.
Ripristinati i vecchi Governi li salutò con giubilo ma non ne chiese favori. Continuò come testimonia l’Arcangeli fino alla vecchiaia il suo mestiere di cantastorie giocando nei mercati con la sua faina e divertendo ancora tutti coloro che lo attorniavano.
Suo è il celebre canto del coscritto “Partire, partirò, partir bisogna” che scrisse quando il Bonaparte ordinò le prime leve. Un canto bellissimo che fu diffuso in tutta la Toscana ed anche fuori.
Lezioni simili di questo canto si ritroveranno poi in diverse raccolte in varie regioni italiane.
Gli ultimi decenni dell’Ottocento segnano il periodo di maggior diffusione della poesia popolare a stampa, le tipografie si stanno ormai avviando la completa ristrutturazione dei macchinari, le moderne tecniche di stampa con la rotativa permettono di ottenere tirature sempre più alte ; il livello qualitativo di questa “letteratura muricciolaia” decade notevolmente, spesso per vendere qualche copia in più si cede al gusto del macabro e/o dell’osceno, arrivando a pubblicare tutto ciò che solleticava la curiosità delle masse popolari, qualche titolo di questi librettini è illuminante : “I cento peccati delle donne”, “Una moglie infedele che uccide i figli”, “Un vecchio che ha sposato dieci mogli”, “Storia di una ragazza che ha cambiato 36 amanti” ecc. ecc. Quanto alla forma metrica è sempre il modulo dell’ottava rima, specialmente il contrasto, ad essere il più apprezzato dalle poco alfabetizzate masse popolari. La casa editrice Salani, da cui abbiamo preso i titoli citati sopra, dal 1875 pubblicò 400 libretti popolari da dieci centesimi, 20-22 pagine in sedicesimo, che saranno ristampate fino al 1930 circa ed ancora oggi sono un punto di riferimento per la conoscenza della letteratura popolaresca.

IL NOVECENTO

Col Novecento la stampa è ormai largamente diffusa accanto alla poesia orale e ne diventa l’ovvio completamento. Spesso nelle fiere e nei mercati questi cantori girovaghi, che fino a pochi decenni prima erano soliti accompagnarsi solo con gli strumenti e poveri fogli volanti ogni tanto sequestrati dalla attenta vigilanza delle guardie di polizia, ora distribuiscono anche dei libretti a stampa con le loro storie, pubblicazioni in fogli o in sedicesimo di cui la casa editrice Salani di Firenze abbiamo visto era stata fra le più attive.
Un’altra casa editrice che si distinse per queste edizioni a carattere popolare, questa volta in prosa anziché in poesia, fu la fiorentina Nerbini; grande diffusione ebbero le storie da romanzo gotico di Ginevra degli Almieri e di Pia de’ Tolomei, libretti che a distanza di un secolo ancora si ristampano (sempre da Nerbini) e trovano un fedele ad appassionato pubblico.
Purtroppo la maggior parte degli originali è andata perduta, è così che la memoria dei poeti e cantori diventa una fonte di documentazione insostituibile per recuperare e tramandare anche interi poemetti. Conosciamo vecchi appassionati che oggi amano recitare e/o cantare a memoria quelle storie tristi e tragiche che un secolo fa erano in bocca ai cantastorie; citiamo per tutti il maremmano Eugenio Bargagli, che pur avendo superato il novantesimo anno è ancora attivo; il poeta improvvisatore di Agliana Realdo Tonti e Bruno Malinconi di S.Giorgio a Colonica.
Altre storie ispirate ad episodi di vita vissuta sono giunte fino ai nostri giorni, recuperando una fama che a quel tempo aveva raggiunto un pubblico veramente esteso; i mass-media odierni ebbero in questi poeti e in questi fogli volanti i loro precursori, divennero scuola a pieno diritto, “ambulante scuola” come la chiamò uno di loro, e questa espressione è diventata un manifesto.
Vogliamo rammentare qualche titolo : la disperata storia di Angelica, “Una Ragazza assalita da tre giovanotti e vendicata dal fratello” che ancora si tramanda di generazione in generazione in Casentino e in Maremma, si tratta di sestine composte da endecasillabi secondo la più consueta tradizione di cui si dice autore L.Magazzini, il foglio è datato 1904. “Il tragico fatto di Pellaro”, Truce delitto di una matrigna, composizione di Pilade Soldaini, senza data (1911?) ma stampato probabilmente nella stessa epoca a Firenze nella tipografia A.Bernardi. Questi fogli hanno ancora una capillare diffusione e la manterranno fino alla fine degli anni Cinquanta, lasciando poi uno spazio ai primi dischi microsolco.

L’OTTAVA RIMA MODERNA

Se dei poemetti o canti raccolti in fogli volanti ci restano non poche testimonianze, non molto resta invece del contrasto improvvisato in ottava rima fino all’avvento di quei rivoluzionari strumenti di documentazione sonora che sono i dischi e i nastri magnetici, questi ultimi soprattutto che incontrarono subito il favore dei poeti, in particolare quelli che avevano utilizzato la loro arte per sopravvivere col piccolo commercio ambulante.
La ricostruzione di alcune fra le maggiori personalità poetiche del Novecento è comunque affidata alla memoria storica dei bernescanti contemporanei; anche se di recente non mancano ampi ed approfonditi studi sulla materia, la maggior parte dei lavori editi riguardano il canto popolare propriamente detto (serenata, stornello, ballata ecc.). Minor interesse ha incontrato presso gli studiosi il contrasto in ottava rima, su cui pesa il giudizio un po’ troppo approssimativo lasciato dagli eruditi ottocenteschi che lo ritenevano rozzo e triviale, quindi non degno di essere trascritto e salvato. Nel secondo Novecento invece l’argomento viene riconsiderato soprattutto ad opera di studiosi insigni come Ernesto De Martino e Diego Carpitella, che ci hanno lasciato una importante documentazione anche sonora.
Ma vogliamo segnalare che il primo esempio cantato del contrasto in ottava rima lo abbiamo rintracciato in un vecchio disco a 78 giri (Homocord) del 1930: mezza ottava inserita in un monologo in vernacolo fiorentino dal comico Giulio Ginanni.
Dalla seconda metà degli anni sessanta cominciano anche ad apparire i primi dischi che i cantastorie e bernescanti offrivano sulle piazze insieme agli altri prodotti del loro piccolo commercio ambulante. In Toscana i più famosi che abbiamo potuto documentare e di cui ancora si riesce a rintracciare qualche disco originale furono attivi nella zona di Firenze (Ceccherini, Piccardi, Logli), di Prato-Pistoia (Andreini) e in Maremma (Eugenio Bargagli, Severino Cagneschi); i primi due gruppi trattano quasi esclusivamente il contrasto in ottava rima mentre Eugenio Bargagli è un vero e autentico cantastorie il cui repertorio spazia dal canto narrativo e/o in quartine o sestine, alle storie satiriche, agli stornelli.
Fra i poeti improvvisatori del primo Novecento che hanno lasciato qualche pubblicazione scritta, ricorderemo anzitutto Idalberto Targioni e Vittorino Poggi, del primo ci restano diverse pubblicazioni, il secondo ha lasciato pochissimo, noi conosciamo solo un libriccino rintracciato nella Biblioteca Nazionale di Firenze; recentemente sono stati pubblicati i contrasti di due concorsi tenuti nel 1938 e 1939 a Querceto di Sesto Fiorentino e organizzati dalla sezione locale dell’Opera Nazionale Dopolavoro, vi parteciparono alcuni dei poeti estemporanei più famosi come Vasco Cai da Bientina, Mario Andreini ( primo classificato) e Giuseppe Masolini di Prato; nel concorso del 1939 è presente anche Gino Ceccherini che nell’immediato dopoguerra diventerà uno dei maggiori protagonisti insieme al collega Elio Piccardi.
Anno XVI dell’ Era Fascista: i contrasti del primo concorso di Sesto sono del tipo madre e figlio, penna e vanga, palombaro e minatore, Bartali e Bini; nel secondo si celebreranno invece i motti del Duce e vincitore risulterà Vasco Cai. Certamente il regime seppe creare un certo consenso intorno alle manifestazioni popolari ma non si creda però che il consenso verso il regime sia sempre stato così manifesto, anche se i gerarchi vigilavano attentamente, ogni tanto qualche manifestazione di aperto dissenso, se non di condanna sfuggiva ai poeti che, non dimentichiamolo sono sempre di estrazione popolare e legati al mondo contadino o del lavoro.
E’ naturale quindi che, caduto il fascismo, anche i poeti estemporanei abbiano dato libero sfogo ai loro sentimenti repressi per vent’anni; violente e truci sono alcune ottave del poeta Mario Andreini di Prato, “Mussolini all’Inferno”, oppure “La fuga di Gambe Corte” che Ceccherini pubblicò in un foglio volante nel 1946, contro il il re che “la guerra la pigliava per uno sporte”.
Commossa invece la descrizione di Firenze distrutta che Ceccherini cantò: ci sono immagini molto belle che ci dimostrano quanta arte poetica ci fosse nell’analfabeta Ceccherini: “Piangere tu gli vedi i Fiorentini / nel perder l’arte con la poesia”, “di vergogne ne abbiamo un monumento”, non senza una certa pietà verso coloro che avevano ridotto l’Italia in quelle condizioni: “Dimolti tu li vedi nel dolore / a capo basso camminando ritti”.

DA VASCO CAI, GINO CECCHERINI ED ELIO PICCARDI A OGGI

Il pisano (di Cascine di Buti) Vasco Cai è unanimemente riconosciuto come il più grande poeta improvvisatore della seconda metà del Novecento. Ne ha tracciato un bel profilo Fabrizio Franceschini nel saggio a lui dedicato, ma non ha lasciato niente di scritto. L’avventura umana e poetica di Ceccherini comincia invece dopo la tragica e dolorosa parentesi della guerra; ci preme richiamare a mente quell’”ambulante scuola” di cui abbiamo parlato prima.
Ceccherini non era da meno di Cai quanto ad abilità nell’ improvvisazione dei temi, chi li ha conosciuti entrambi può renderne testimonianza; più incline ai temi giocosi il primo, sempre pronto allo scherzo e alla facile battuta, quanto serio e riflessivo era Cai. Ceccherini venditore ambulante era abituato al pubblico e al clamore delle fiere e dei mercati, un pubblico che richiedeva da lui un’ora di puro divertimento, anche se pur scherzando il poeta sapeva spiegare con arte la sua visione della vita e della società; Cai esigeva la concentrazione e il silenzio, era consapevole dell’impegno necessario al poeta per esprimere il meglio della sua arte.
L’ambiente in cui operò Ceccherini fu la città di Firenze e i centri del contado, con escursioni anche nel pratese ma senza danneggiare il suo collega Andreini, ambulante anche lui, che aveva il suo territorio operativo fra Prato e Pistoia e fu il suo primo collega di lavoro.
Si unì poi ad Elio Piccardi di Castelfranco di Sopra con cui lavorò fino alla scomparsa. Spesso si univa a loro anche il giovane Altamante Logli di Scandicci, detto “il poetino”. È a loro che ancora oggi dobbiamo molte delle notizie sull’attività dei bernescanti in quel periodo che abbiamo cercato di ricostruire nel nostro volume “I POETI DEL MERCATO” cui rimandiamo per una esauriente antologia dei loro contrasti poetici.
POETI DEL MERCATO, non solo perché Ceccherini e Piccardi erano due venditori ambulanti di lamette e poesia, ma anche per sottolineare la continuità della poesia popolare del Novecento con quella dei secoli passati, a cominciare da Antonio Pucci campanaio, che compone un capitolo in terza rima sulle “Proprietà del mercato Vecchio”, l’ambiente ideale in cui nasce e si diffonde la poesia che trattiamo oggi, una poesia affatto banale, anzi ricca di stimoli e di osservazioni sulla realtà e sull’eterno confronto-scontro fra le classi sociali esistenti, che è anche confronto di cultura, non solo di potere.

Fra i fogli volanti che distribuivano fra un contrasto e l’altro, vogliamo evidenziare “In 50 anni di canto improvvisato / 41 poeti ho presentato”, 12 ottave in cui Ceccherini passa in rassegna tutti i poeti estemporanei allora attivi fra Pistoia, Arezzo e Firenze, non senza una frecciatina contro quei poeti “da vendemmiatura” che fanno “più male che dell’alluvione”. Un modulo già presente nelle ottave del Niccheri e di Vittorino Poggi che ebbe fortuna e sarà ancora utilizzato dal bernescante aretino Edilio Romanelli che pubblicherà nel 1981 addirittura un libro di 400 ottave (una per ciascun poeta fra cui il giovane Roberto Benigni), un vero e proprio censimento degli interpreti del canto popolare in ottava rima.
Ci preme ricordare questo aspetto “letterario” della loro produzione poetica, perché senza il materiale cartaceo non sarebbe rimasto quasi niente dei loro versi. E furono ancora i bernescanti i primi ad usare quegli apparecchi di registrazione allora poco diffusi, che la tecnologia moderna aveva appena incominciato a produrre, come il magnetofono a pile, testimone preciso di molti incontri poetici nelle serate a cui venivano invitati, feste dell’Unità o altre occasioni di intrattenimento. Dall’ascolto di questi vecchi nastri abbiamo potuto mettere a confronto le ottave di autentica improvvisazione con le incisioni semiprofessionali dei dischi in vinile, necessariamente più brevi, essendo il contrasto legato al tempo tecnico di durata del microsolco, quasi sempre compreso fra i quattro e i sette minuti. E bisogna riconoscere che non vi sono differenze sostanziali per quanto riguarda il contenuto delle tematiche, quasi sempre anche il disco inciso in sala di registrazione conserva il carattere immediato e genuino dell’improvvisazione sulle piazze.
Questi contrasti, oltre ad essere di una sconvolgente attualità, conservano ancora intatta la loro freschezza, come se fossero stati improvvisati al mercato, ciò a dimostrazione che, come ancora oggi avviene quando si registra una trasmissione nelle piccole televisioni locali, anche in un ambiente estraneo e non certo favorevole alla creatività poetica, i nostri poeti erano capaci di dare un saggio estremamente rigoroso della loro arte.

Oggi anche la televisione ha documentato sia pure approssimativamente esempi di poesia estemporanea, ma i tempi concessi dal piccolo schermo sono troppo brevi, neanche un minimo di riscaldamento per chi è abituato alle fiere o mercati, alle lunghe veglie sull’aia o al canto del fuoco, e manca l’essenziale presenza del pubblico.
L’unica manifestazione in cui è stato possibile ricreare, almeno in parte, l’ambiente popolare del passato sono gli Incontri di Poesia estemporanea di Ribolla, oggi giunti alla XIV edizione. Nel piccolo centro maremmano rimane ancora un profondo legame con la tradizione dell’oralità, un amore sincero per l’improvvisazione in ottava rima. Dal 1992 convengono nel circolo locale i maggiori poeti improvvisatori della Toscana e del Lazio, si scelgono i temi col sorteggio, si ascoltano in religioso silenzio i temi proposti dal pubblico che affolla la sala sempre pronto a sottolineare con scroscianti applausi i migliori versi. Da allora dobbiamo registrare una forte ripresa della tradizione poetica estemporanea che ha attirato anche un ricambio generazionale. Sono stati pubblicati libri, articoli di giornale, passaggi televisivi; un interesse che è arrivato fino alle aule universitarie. Sono poi nate anche altre manifestazioni similari: ad Agliana, Arezzo, Siena.
La poesia estemporanea, data per morta più di un secolo fa, è ancora seguita da un suo fedele pubblico, ciò fa ben sperare.
Abbiamo osservato come la poesia degli improvvisatori fosse stata nel secolo scorso forse troppo sbrigativamente accantonata come rozza, volgare e/o priva di interesse storico o di valori estetici tali da competere con gli stornelli, i rispetti o i canti d’amore; la sola Francesca Alexander, la cui analisi non era viziata da poco opportuni paragoni con i sommi poeti del passato, riesce a dare di quel canto un’immagine serena e veritiera, riesce a cogliere pienamente il valore anche estetico delle ottave contadine, che risplende di una luce propria e, se non ha raggiunto le vette supreme della poesia colta, è perché l’ambiente non ha permesso a questi poeti di superare l’ardua barriera che separa le due culture; vogliamo insomma dire che se a Beatrice di Pian degli Ontani o a Vasco Cai, o a Gino Cecherini fossero state aperte le porte della scuola, dei grandi teatri e delle accademie letterarie, forse lo scaffale della nostra letteratura avrebbe qualche poeta in più da annoverare. Era successo nel Settecento con Metastasio, è successo ancora oggi con Roberto Benigni.
Il fatto che un poeta contadino ignori Petrarca e Leopardi nulla toglie al valore poetico dei suoi versi, quando questi riescono a comunicare un’emozione, un sentimento, in una sola parola riescono ad essere “scuola”, quella scuola ambulante di cui parlava Vittorino Poggi.
Ma in quell’ambiente solo apparentemente rozzo e volgare, dove vivevano pastori e contadini, dove lo spazio lasciato vuoto dalla “scuola ufficiale” era enorme fino a pochi anni addietro, si spandeva invece la voce del poeta, il canto e la sua vena inesauribile con cui sapeva affrontare (e trasmettere) anche i grandi temi della storia; ed anche nelle piazze e nelle osterie dei villaggi, nelle aie e nelle grandi cucine contadine, dove si trovava un’umanità vera, poco disposta a scendere a compromessi con quella che era la cultura ufficiale dominante.
Il pubblico dei poeti popolari non lo abbiamo mai visto annoiato come quello che frequenta le scuole e le università, anzi lo abbiamo sempre visto seguire con vibrante partecipazione ogni occasione di canto, perché quella era la cultura in cui si riconosceva. Canti fatti dal popolo e per il popolo, per attenerci alla prima delle tre definizioni di Rubieri (due: canti composti per il popolo ma non dal popolo, tre: canti scritti né dal popolo né per il popolo ma da questo adottati perché conformi alla sua maniera di pensare e di sentire) che Gramsci sottolinea nellle sue osservazioni sul folclore.
La poesia di improvvisazione crediamo di poterla collocare al primo punto anche se del terzo contiene quel suo “ essere conforme alla sua maniera di pensare e di sentire”.
Scrive ancora Gramsci, ed anche questa osservazione ben si adatta alla poesia estemporanea, “ciò che contraddistingue il canto popolare nel quadro di una nazione e della sua cultura non è il fatto artistico (bello, sublime, rozzo…) né l’origine storica (quando è nato il contrasto? chi lo ha usato per la prima volta?) ma il suo modo di concepire il mondo e la vita. Che nel caso dei poeti ambulanti si identifica perfettamente con la struttura ideologica semplice ma essenziale, di quella folla attenta e rispettosa che si accalcava intorno alle povere bancarelle.
Abbiamo potuto documentare solo una parte della loro opera, ma sufficiente per capire a fondo la poetica dei bernescanti; certo il bisogno di evasione delle genti contadine, che vengono al mercato oppure vanno a veglia, meritato riposo dopo lunghe giornate di lavoro, spesso richiede ai poeti un canto giocoso, e ne abbiamo visto i temi, ma quando la storia incombe, quando si devono giudicare (o decidere) i grandi temi della Pace e della Guerra, della Politica o della Religione, della Vita o della Morte, i poeti non si tirano indietro e affrontano la storia, senza incertezze di giudizio: sanno e comprendono benissimo dove sta il torto e dove la ragione, dove sta la giustizia e dove l’ingiustizia, il male (la violenza e la guerra) e il bene (la pace e l’amore). Il poeta popolare ha cantato Napoleone e Mussolini, la democrazia e la dittatura, la religione e l’ateismo, la natura e la scienza, su queste categorie di pensiero ha sempre dato la sua interpretazione dei fatti con incrollabile sicurezza, senza lasciare “ai posteri l’ardua sentenza” come qualche altro poeta ha fatto.

Alessandro Bencistà

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE:

FABRIZIO FRANCESCHINI, I contrasti in ottava rima e l’opera di Vasco Cai da Bientina, Pacini ed. Pisa 1983 ;
GIOVANNI KEZICH, I poeti contadini, Bulzoni ed. Roma 1986 ;
ALESSANDRO BENCISTA’ (a cura) I poeti del mercato, ed. Studium, Radda in Chianti, 1990 ;
MAURO PASTACALDI (a cura) …se tu guadagni otto e spendi nove…Mario Andreini un maestro della poesia estemporanea, Ed. Pantagruel, Pistoia 1992 ;
BENCISTA’ ALESSANDRO (a cura), I Bernescanti, Polistampa ed. Firenze 1994 ;
AA.VV. L’arte del dire, Atti del convegno di studi sull’improvvisazione poetica, Biblioteca Chelliana-Archivio delle Tradizioni Popolari della Maremma Grossetana, Grosseto 1999 ;
CORRADO BARONTINI (a cura), Il cantastorie, Biblioteca Chelliana-Archivio delle Tradizioni Popolari della Maremma Grossetana, Grosseto 2000 ;
C.BARONTINI-A.BENCISTA’ (a cura), Poesia estemporanea a Ribolla, ToscanaFolk-Laurum ed. Pitigliano, 2002;
BATTISTONI GIANNI, (a cura), Cantar in poesia, Due concorsi di poesia estemporanea, Querceto 1938 – 1939, Ed. Polistampa, Firenze 2003;
BENCISTA’ ALESSANDRO, L’ambulante scuola, Sempre Editrice, Firenze 2004;
BENCISTA’ ALESSANDRO (a cura), L’alluvione dell’Arno nel 1333 e altre storie di un poeta campanaio, LibreriaChiari ed. Reggello 2006

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o4. Il Cantastorie e i poemi cavallereschi in Toscana

Bruscello Qui

Il personaggio più amato ed atteso nelle grandi e fumose cucine di campagna, specialmente per Carnevale, ma anche in Quaresima era il Cantastorie , uomo estroso, memoria storica della tradizione trasmessa oralmente, buon narratore, animatore di veglie, recitava poemi cavallereschi, o rime da lui composte con uguale impegno, in occasione di sposalizi, feste campestri o in occasioni particolari, come il pranzo per la fine della trebbiatura, o per la sfogliatura del granturco.

La musica era costituita da motivi tradizionali che ritroviamo nel Bruscello attuale, nelle musiche dello Storico e del Cantastorie. Conosceva a memoria tutte le musiche ed i testi che venivano tramandati oralmente. Personaggio simpatico, certamente non astemio, attirava su di sè l’attenzione di tutto l’uditorio, dal Capoccia alla Massaia dal figlio maggiore alla sua sposa , dal nonno solitamente appostato nel cantone del focolare, al nipotino. Intorno a questo personaggio, si raccoglievano i bruscellanti ; con l’occasione egli prendeva il nome di Vecchio del Bruscello, insieme a lui i bruscellanti sceglievano il testo, il Cantastorie assegnava le parti, compresa quella femminile e cominciavano le prove, in una stalla o in un granaio. Nel periodo di Carnevale, il Bruscello iniziava la sua peregrinazione di podere in podere. La questua che seguiva la rappresentazione era destinata ad una cena di tutta la Compagnia. I Bruscelli duravano circa mezz’ora, i costumi venivano improvvisati dagli stessi bruscellanti : spade di legno, corazze di latta, cimieri di bambagia o di stoppa, scudi di cartone, giubbe rovesciate e pantaloni stretti in fondo, questi erano i costumi del Bruscello, la voce ora forte, ora stridente, l’intonazione grave, affrettata o solenne servivano a sottolineare l’intensità del sentimento o la drammaticità dell’azione. I personaggi, sia maschili che femminili, venivano interpretati da uomini, la musica veniva suonata dalla fisarmonica con accompagnamento di tamburi o cembali, violini chitarre e flauti.I Bruscelli venivano rappresentati, preferibilmente, il sabato o la domenica ; i bruscellanti arrivavano al podere in corteo ; in testa il Vecchio del Bruscello con l’arboscello in mano, dietro la musica e poi i bruscellanti che si disponevano a semicerchio ed iniziavano la recita cantando in coro l’invocazione alla Massaia che offrisse uova farina e vino per la grande mangiata. La famiglia che ospitava i bruscellanti, di solito offriva o la cena o uno spuntino ; gli spettatori, contadini dei poderi vicini, che avevano seguito i bruscellanti, portavano in dono uova, formaggio, salumi e fiaschi di vino, che venivano consumati in allegria fra canti e suoni, battute frizzanti e sberleffi. Il Bruscello veniva rappresentato nelle stalle o nei fienili, era molto apprezzato dagli spettatori, che non perdevano una battuta della recita, parteggiando per questo o quel personaggio : di solito il buono o colui che aveva subìto il torto o l’ingiustizia, e finivano per imparare a memoria i testi ripetutamente ascoltati. Il Bruscello è così giunto fino a noi mutato nella forma per la necessità di allestire uno spettacolo confacente ai gusti del popolo, ed ai suoi profondi cambiamenti.[/b] E’ un esempio di teatro popolare che vive e si trasforma, ma che rimane legato ad una tradizione che non è morta con la scomparsa del mondo contadino, ma che è sopravvissuta al suo disfacimento perché ancora prima che questo avvenisse si era già evoluta e trasformata, ed oggi dopo oltre 60 anni è sempre viva e fa rivivere sul sagrato del Duomo i suoi leggendari personaggi che l’animo popolare ha reso immortali.

 

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Protetto: Poesia Dialettale – GiornataMondialePoesia2013

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