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Il Cafè Gambrinus …

LOCALI STORICI

Tratto da qui
- antichi ritrovi -

Il bar è di antica origine. Dalla Turchia si estese a Napoli per la particolare abitudine della consumazione del caffè diffusosi col regime spagnolo. Il primo bar fu proprio il “Caffè”, dove persone di cultura amavano raccogliersi per degustare tale bevanda e intrattenersi in argomenti letterari.
A Napoli, dal 1700 al 1800, videro la luce più di cento “Caffè” tra i quali si segnalarono per la loro importanza: il Diodati, il Fortuna, il S. Apostoli, il Caffè dei Tribunali (sempre pieno di avvocati), il Bar Starace (meta di Antonio Petito), il Caffè Vacca (in Villa comunale), il Caffè d’Italia (in via Toledo, che annoverava tra i suoi clienti Francesco Mastriani). Ma il caffè per antonomasia fu il Gambrinus (1850), ubicato all’angolo di via Chiaia, tra la nuova e la vecchia Napoli: la poetica e l’industriale. Affrescato per la maggior parte da Caprile, accolse famosi personaggi politici come Crispi, Nicotera, Bonchi, Labriola, Miraglia e l’élite napoletana dei Filangieri, Zerbo, Salazar, Schilizzi, Sirignano, Colonna, Caracciolo, Pignatelli e del Balzo, nonché artisti e poeti da Di Giacomo a Serao, Dalbono, Gemito, Murolo, Bovio, Michetti, Russo, Bracco, D’Annunzio. Nei locali del Gambrinus nacquero celebri canzoni tra le quali “A Vucchella” di Gabriele D’Annunzio e Paolo Tosti.
Altri “Caffè” importanti furono il Torgiani, il Donzelli, l’Uccello in via Duomo; l’Aceniello a Porta San Gennaro; il Turco in Piazza del Plebiscito; il Bisesti in zona Ferrovia; il Pietruccio in via Pignasecca, che funzionavano anche di notte. Oggi la città è piena di bar e tutti preparano un’ottima tazza di caffè.

tratto da: Aldo De Gioia, Frammenti di Napoli
RCE Edizioni srl, Napoli 2000

Caffè Gambrinus


Piazza Trieste e Trento
Napoli

Intorno agli anni 1860, sulla piazza Plebiscito, là dove una volta c’era stato un grande bazar, si apriva il “Gran Caffè”. rinomatissimo e frequentato da personaggi illustri ed esponenti cospicui del bel mondo cittadino. Al ritrovo si accedeva attraverso numerosi ingressi, tanto che veniva indicato anche come Caffè delle sette porte.
1 suoi locali erano al piano terra del palazzo della Foresteria, una massiccia costruzione del 1816, attualmente sede della Prefettura, a due passi da Palazzo Reale.
Lo splendore del Gran Caffè, siccome una donna che va avanti negli anni, non durò, però, a lungo; nel 1885, infatti, ci fu la conclusione della sua pur brillante vita. Morto il re, viva il re, è il caso di dire; perché trascorsi che furono cinque anni, le sue sale si spalancarono all’ammirazione dei napoletani, e forestieri, in una rinnovata, più vivida magnificenza.
Era accaduto che don Mariano Vacca, proprie­tario del Caffè d’Europa, all’angolo di via Chiaia, uomo avveduto e personaggio popolare per la domestichezza che aveva con artisti e attori, avendo tratto in fitto i locali e avendoli affidati al gusto e alla perizia dell’architetto Antonio Curri, fosse riuscito a dare a Napoli un nuovo e più importante luogo di convegno, com’erano da considerarsi in quel tempo i caffè. Nelle sale erano comparsi pastelli che erano onorati dalle firme di Volpe, Irolli, Caprile, Casciaro, Pratella, Postiglione; paesaggi ed altre opere dovuti a Migliaro, Scoppetta, Campriani, Diodati, Esposito, D’Agostino, Chiarolanza, Capone, Ragione, Palumbo. C’erano i marmi di Jenny e Fiore, gli stucchi del Bocchetta, i bassorilievi del Cepparulo e le tappezzerie del Porcelli. Insomma, una piccola galleria d’arte. L’inaugurazione avvenne il 3 novembre 1890, in uno sfavillio di luci giacché – altro tocco di interesse – l’illuminazione era stata ottenuta con l’impiego di energia elettrica. Nell’insegna, spiccava il nome del favoloso re, inventore della birra. Si leggeva, infatti, “Birreria Caffè Gambrinus”, in cui c’era il suggerimento di un felice matrimonio tra due famose bevande: l’una, bionda, fredda e nordica; l’altra, scura e bollente, tipicamente napoletana.
Il caffè, posto nel centro della città, fu, per più di un decennio, il luogo di raccolta di tutte le più eminenti, o interessanti, o pittoresche figure di Napoli. Non solo, perché non c’era artista forestiero che mancasse di farvi una capatina, ancorché il suo soggiorno si limitasse a una mezza giornata, o poco più. Delle sale del Gambrinus, che presero ad essere indicate secondo precise caratteristiche, per cui si ebbero, tanto per richiamare qualche ricordo, la sala politica, la sala della vita, la sala rotonda, erano assi­dui frequentatori, tra una folla di nomi illustri: Salvatore Di Giacomo, Eduardo Scarfoglio, Ferdinando Russo, Roberto Bracco, Achille Torelli, Enrico De Nicola, Giovanni Porzio, Libero Bovio, Ernesto Murolo; il critico Saverio Procida, i pittori Morelli, Altamura, Casciaro, Caprile, Dalbono, Postiglione. Sia d’estate, all’esterno, che d’inverno, all’interno, piccole formazioni musicali di dame viennesi, o complessi locali, rallegrarono per anni le soste di cotanti brillanti ospiti. Sulle pedane all’aperto furono date numerose audizioni di Piedigrotta, con orchestre di almeno trenta elementi diretti da Vincenzo Ricciardi, e con cantanti che avevano peso nel varietà dell’epoca, da Diego Giannini a Olga Florez Paganini. Tra costoro, il più assiduo fu Eugenio Sapio, che vi cantò per lungo tempo.
Fino agli anni venti, il Gambrinus ebbe vita prospera; poi, sotto l’incalzare di eventi e mode con le quali non poteva avere, per le sue tradizioni, alcun rapporto, cominciò a declinare. Visse stancamente gli ultimi anni, fino al 1938, quando la sua chiusura divenne inevitabile. Fortunatamente intervenne il Banco di Napoli che rilevandone alcune sale per i propri uffici, evitò che tante opere d’arte andassero distrutte, come forse sarebbe accaduto se altri ne avessero preso possesso. Le rimanenti sale, su via Chiaia e S. Ferdinando, sono tutt’ora adibite a caffè, anzi bar, in uno stanco ricordo di quello che una volta fu il Gambrinus.

Ettore de Mura – Enciclopedia della Canzone Napoletana
Casa Editrice IL TORCHIO, Napoli 1969

La storia di una città si consuma per le strade, nelle sue case, nei suoi ritrovi. I suoi locali, quindi, risultano fondamentali nel recupero di una parte del suo passato e per una lettura del suo presente; quella parte di storia che è passata nei caffè, nei ristoranti, nelle pizzerie, attraverso aneddoti e citazioni che gli stessi proprietari custodiscono come un’eredità preziosa.

Centocinquant’anni di storia a sfilare tra quei tavolini di una capitale. Re, Regine, intellettuali, personaggi celebri o anonimi cittadini a sostare in un foyer unico al mondo, in una galleria d’arte da vivere sul filo di una musica1ità di vita. Dalle orchestrine viennesi alle indimenticabili canzoni napoletane, alla città moderna, a una qualità di servizi e prodotti sempre al top. Questo è il caffè di Napoli, questo è il Gambrinus. Una tradizione antichissima fa dei caffè uno dei centri vitali e culturali della città. Dislocato proprio nella culla della capitale, dinnanzi ai suoi tavolini si succederanno i più importanti avvenimenti della storia di Napoli, di tutta la nazione. Il vecchio Gran Caffè nel 1890 si trasforma in una vera e propria Galleria d’Arte diventando il Gambrinus. A ristrutturare preziosamente questi ambienti interverranno i migliori artisti dell’epoca. Pittori, scultori e decoratori daranno vita ad un laboratorio d’arte che susciterà l’ammirazione di tutta la città e dei tanti turisti che lo affollano. De Sanctis, Scoppetta, Caprili, Migliaro, Fabron, Capone, Volpe, Tafuri sono soltanto alcuni dei nomi che hanno lasciato una traccia in quel Caffè, da sempre frequentato da “galantuomini”, intellettuali e tanti giornalisti e poeti che da quelle sale hanno tratto ispirazione per la creazione di molte delle celebri melodie di quel fenomeno che è la canzone classica napoletana. Tra quei tavolini, accanto ad anonimi cittadini, si sono seduti quotidianamente celebri personaggi come D’Annunzio, Scarfoglio, Di Giacomo. Un rito mai interrotto e anche nei giorni nostri i personaggi più noti, compresi i Presidenti della Repubblica, non mancano di far visita a una Galleria-Caffè unica al mondo che sa fondere immagini d’arte con il piacere di una conversazione, con il gusto di assaporare sofisticati e ricercati prodotti. Tra quei tavolini non si è mai spezzato quel filo di piacere che continua ad essere il poter godere un attimo di relax. Tra un sorbetto, una raffinata pasticceria, un originale cocktail o il classico, irrinunc

iabile, caffè. Irrinunciabile come quel pezzo di storia, arte, cultura, vita che è il Gambrinus. Artisti, intellettuali e poeti da De Sanctis a D’Annunzio, da Migliaro a Di Giacomo, tutti hanno lasciato al Caffè Gambrinus una traccia del loro sapere.

 

 

GAMBRINUS, DOVE D’ANNUNZIO SCRISSE «’A VUCCHELLA»
Un locale ricco di storia, era la casa di poeti, scrittori, pittori, commediografi

«E’ una delle più significative espressioni dell’arte napoletana del secolo XIX» disse, di esso, Domenico Morelli. L’aspirazione dei suoi attuali gestori, i fratelli Sergio, è ora che il «Gambrinus» torni ad essere quello che fu negli anni compresi fra la metà dell’Ottocento e il primo trentennio del Novecento, cioè un caffè letterario, ove sanno darsi convegno artisti e intellettuali. Recuperata dopo una lunghissima battaglia burocratica, la quasi totalità dei suoi locali, il «Gambrinus», le cui pareti risultano ornate da dipinti dei maggiori pittori napoletani dell’Ottocento, ha festeggiato, con una manifestazione alla quale ha partecipato Armato Lamberti presidente dell’amministrazione provinciale, (proprietaria dei locali) il suo ritorno alla piena attività. E’ proprio carico di storia, il «Gambrinus» di Napoli, così come lo sono il «Greco» di Roma, il «Florian» di Venezia, le «Giubbe rosse» di Firenze e il «Pedrocchi» di Padova. Col nome di «Gran Caffè», esso fu inaugurato nel 1860, poco dopo l’arrivo di Garibaldi a Napoli. Vincenzo Apuzzo fondatore del «Gran Caffè» dovette vincere la concorrenza del dirimpettaio «Caffè Europa» e del vicino «Caffè Turco». Spedì dunque a Parigi, a Londra e a Vienna alcuni dei suoi collaboratori, affinché imparassero tutti i segreti della pasticceria internazionale e si fece promotore di fiabesche feste di carnevale e di mecenatesche occasioni culturali. Impiegò somme enormi, in queste iniziative. Ne trasse fama e gloria, ma scarsi guadagni e, infatti, di lì a non molto dovette cedere la gestione a Mariano Vacca, già proprietario del dirimpettaio «Caffè Europa».
Siamo alla svolta decisiva. Mariano Vacca convocò, per prima cosa, l’architetto Antonio Curri, uno dei più attivi dell’epoca il quale, a sua volta ingaggiò un gran numero, almeno una quarantina, fra scultori e pittori. I lavori durarono sei mesi, marmi, specchi, stucchi, bassorilievi, dipinti, dorature, furono gli elementi di cui l’architetto Curri si servì per articolare la sua opera. E fu sua l’idea di aggiungere, alla dicitura di «Gran Caffè», la parola «Gambrinus»: «Gran Caffè Gambrinus», in onore del leggendario re germanico probabile inventore della birra. Il 30ottobre 1890 vi fu l’inaugurazione ufficiale.
Ben presto il rinnovato locale diventò anche il principale luogo di convegno degli uomini di cultura della città. I nomi di poeti come Gabriele D’Annunzio (che dal 1891 al 1893 visse a Napoli) e come Salvatore Di Giacomo e di Ferdinando Russo, di giornalisti come Edoardo Scarfoglio, Matilde Serao e Francesco Bufi, di musicisti come Francesco Paolo Tosti e Mariano Costa, di commediografi come Roberto Bracco, di clinici come Antonio Cardarelli, di avvocati come Carlo Fiorante sono soltanto i nomi di alcuni di coloro che, a sera, andavano a trattenersi al «Gambrinus». E fu qui, peraltro, secondo uni incontrollata tradizione, che Gabriele D’Annunzio scrisse i versi della sua celebre canzone dialettale «’A vucchella». Così come, certissimamente, era qui che Ferdinando Russo scriveva i testi di quelle divertenti macchiette che Nicola Maldacea eseguiva al vicino «Salone Margherita», primo cafè-chantant d’Italia. Il «Gambrinus» venne ridotto a una minuscola stanzetta il 5 agosto 1938 per ordine del prefetto Giovarmi Battista Maculi. Il motivo ufficiale fu che il Gambrinus era diventato un covo di antifascisti. Il vero motivo, come ha sostenuto lo scrittore Giovanni Artieri, fu che il prefetto Marziali, anzi la moglie del prefetto Marziali, già insonne per sua natura, veniva disturbata, nottetempo, dai suoni dell’orchestrina del «Gambrinus». Appena cinque mesi dopo, purtroppo, il «Gambrinus» si portò appresso, nel suo crollo, un importante settimanale: il rotocalco «Omnibus», diretto da Leo Longanesi che tramite un articolo di Alberto Savino aveva trovato modo di denunciare il sopruso subìto dal locale. I locati dell’ex «Gambrinus» vennero, nella loro quasi totalità, ceduti in affitto a una banca e ad alcune ditte commerciali.
Michele Sergio, padre degli attuali gestori del «Gambrinus», fu colui che diede inizio alla battaglia per il recupero dei locali. Una battaglia vinta, in suo nome, dai suoi due figli. Per la gioia di tutta Napoli che ha, così, di nuovo, il suo vero e grande «Caffè letterario».

Vittorio Paliotti

coll.ne R. Cortese

IL RECUPERO DEGLI AMBIENTI
DELL’ANTICO
caffè Gambrinus

Con la restituzione dei locali del piano terra dell’originaria Foresteria del Palazzo Reale di Napoli, l’Amministrazione Provinciale, ma soprattutto la città ha riacquistato un altro pezzo della sua storia più recente che, come spesso accade, viene precocemente dimenticata: si tratta degli ampi saloni, riccamente decorati, dell’ottocentesco “Caffè Gambrinus”. Negli anni che seguirono l’unità d’Italia e nel corso dei complessi meccanismi amministrativi che ridistribuirono le proprietà della Corona alle amministrazioni pubbliche, l’edificio della foresteria è diventato sede della Prefettura di Napoli e di proprietà dell’Amministrazione Provinciale della città. Una parte dei locali al piano terra e precisamente quelli su Piazza Trieste e Trento, furono destinati ad uso commerciale: qui si trovava il “Gran Caffè” che, con l’avvento di nuovi gestori, cambiò il suo nome nel 1890 in “Gran Caffè Gambrinus”. Questo luogo segnerà un’epoca: le sue sale saranno testimoni, anno dopo anno, della silenziosa rivoluzione che, durante la “belle époque”, farà del ceto borghese ed industriale i protagonisti assoluti: nello stesso tempo questi luoghi pubblici, rappresentarono qualcosa di più di semplici Caffè, a Napoli come nelle altre capitali europee questi saranno i luoghi nei quali intellettuali, politici, artisti e rappresentanti di tutte le classi professionali si ritroveranno e scriveranno alcune pagine della storia culturale, sociale e politica dell’epoca. La decorazione dei saloni viene compiuta nel 1893, in occasione dell’ampliamento del Caffè con le sale che affacciano sulla monumentale Piazza del Plebiscito: il progetto dell’intero apparato decorativo viene affidato ad Antonio Curri. Il Curri, docente di Architettura ed Ornato nella Real Università di Napoli nonché professore onorario dell’Istituto di Belle Arti, si era distinto come artefice di numerosi impianti decorativi quali il restauro della facciata del Duomo di Napoli, la decorazione della chiesa di San Giovanni a Mare e, sopratutto, la decorazione della “Galleria Umberto I”. La decorazione dei saloni del Gambrinus si pone come un’altra importante tappa del modernismo in Napoli ed il fatto che ci si trovi in un Caffè non diminuisce lustro all’opera, anzi la arricchisce di valenze particolari legate ai costumi dell’epoca. Se nel complesso la decorazione degli stucchi può definirsi floreale, in più di un particolare è possibile cogliere quell’accento eclettico che non può far a meno di continui richiami al mondo classico. Nel lavoro decorativo il Curri si avvalse della collaborazione di Gaetano D’Agostino e Salvatore Cozzolino, mentre una vasta rappresentanza di pittori trova spazio sulle pareti e nei vani delle finestre, espediente che permetteva di mettere in mostra la ricca decorazione anche ai passanti. I quadri nel loro insieme sono rappresentativi della tipologia della produzione napoletana di fine secolo, contrassegnata dal vedutismo di squarci naturalistici en plain air o da ritratti di giovani popolani e popolane o rappresentanti del bel mondo sempre colti in pose naturali come in uno spaccato di vita quotidiano. Tuttavia, pur nell’imprescindibile marchio di napoletanità, è possibile intravedere alcuni aspetti collegati alle correnti estetiche di discendenza francese e austriaca. Il tutto fa della galleria dei saloni del Gambrinus un monumento omogeneo rappresentativo del panorama pittorico e decorativo della seconda metà del secolo, tale da richiedere un approfondimento di studi che ne rivaluti il ruolo, la funzione ed il valore monumentale.

Manuela Calabrese

L’antico caffè Gambrinus

Con la restituzione dei locali del piano terra dell’originaria Foresteria del Palazzo Reale di Napoli, l’Amministrazione provinciale, ma soprattutto la città ha riacquistato un altro pezzo della sua storia più recente che, come spesso accade, viene precocemente dimenticata: si tratta degli ampi saloni, riccamente decorati, dell’ottocentesco “Caffè Gambrinus”.
La storia dell’intero edificio è legata alla complessa sistemazione della piazza antistante il Palazzo Reale: questa, nel 1809 – epoca murattiana – diviene oggetto di un progetto decorativamente neoclassico che la renderà uno spazio degno delle nuove concezioni urbanistiche del secolo XIX; queste infatti, tra l’altro, dovendo anche assolvere alle istanze di una giusta integrazione tra le sedi del potere e la partecipazione del popolo ad esse, trovavano nell’enorme piazza la risoluzione di un esigenza primaria. II vincitore della gara per il progetto, indetta nel 1812, fu Leopoldo Laperuta, il quale godette anche della stima di re Ferdinando I – che gli permise di continuare il lavoro, affiancato dall’architetto di Corte Antonio De Simone.
Per il piano originale, al posto dell’odierna chiesa, Murat aveva predisposto una enorme sala circolare adibita a riunioni civiche e, nei vani laterali a questa, un Museo Nazionale della Scienza della Tecnica e del Lavoro. Inizialmente i due edifici, simmetricamente disposti ai lati della grande piazza, gemelli nella decorazione che ripercorre e ripropone gli ordini dei dettami vitruviani, dovevano avere la funzione, rispettivamente di sede dei ministeri di Stato l’uno e di ministero per gli Affari Esteri l’altro.
Ma poco dopo la loro definitiva realizzazione, furono adibiti quest’ultimo a Palazzo della Foresteria, mentre il primo, dopo aver predisposto per i ministeri la costruzione di Palazzo San Giacomo, fu destinato a residenza di Leopoldo di Borbone principe di Salerno.
Negli anni che seguirono l’unità d’Italia e nel corso dei complessi meccanismi amministrativi che ridistribuirono le proprietà della corona alle amministrazioni pubbliche, l’edificio della foresteria è diventato sede della Prefettura di Napoli e di proprietà dell’Amministrazione provinciale della città. Una parte dei locali al piano terra e precisamente quelli su Piazza Trieste e Trento, furono destinati ad uso commerciale: qui si trovava il “Gran Caffè” che, con l’avvento di nuovi gestori, cambiò il suo nome nel 1890 in “Gran Caffè Gambrinus”. Questo luogo segnerà un’epoca: le sue sale saranno testimoni, anno dopo anno, della silenziosa rivoluzione che, durante la “belle époque”, farà del ceto borghese ed industriale i protagonisti assoluti; nello stesso tempo questi luoghi pubblici, rappresenteranno qualcosa di più di semplici Caffè, a Napoli come nelle altre capitali europee questi saranno i luoghi nei quali intellettuali, politici, artisti e rappresentanti di tutte le classi professionali si ritroveranno e scriveranno alcune pagine della storia culturale, sociale e politica dell’epoca. Non è un caso quindi che per i saloni del “Caffè Gambrinus” si può parlare di un vero e proprio monumento dell’arte decorativa del modernismo a Napoli e di una galleria rappresentativa della seconda generazione di artisti aderenti alla corrente verista dell’Ottocento napoletano, quasi tutti allievi dell’Istituto di Belle Arti, e seguaci del Palizzi e del Morelli.
La decorazione dei saloni viene compiuta nel 1893, in occasione dell’ampliamento del Caffè con le sale che affacciano sulla monumentale Piazza del Plebiscito: il progetto dell’intero apparato decorativo viene affidato ad Antonio Curri. I1 Curri, docente di Architettura ed Ornato nella Real Università di Napoli nonché professore onorario dell’Istituto di Belle Arti, si era distinto come artefice di numerosi impianti decorativi quali il restauro della facciata del Duomo di Napoli, la decorazione della chiesa di San Giovanni a Mare e, soprattutto, la decorazione della “Galleria Umberto I”.
Quest’ultima, inaugurata il 10 novembre 1892, si può definire l’opera più rappresentativa in città sia della classe borghese napoletana che dell’architettura dell’era industriale la quale, con le sue strutture in vetro e metallo, ha come obbiettivo una fusione tra bello e funzionale ed ha come suo prototipo mondiale la Torre Eiffel a Parigi e la Mole Antonelliana in Italia.
La decorazione dei saloni del Gambrinus si pone come un’altra importante tappa del modernismo in Napoli ed il fatto che ci si trovi in un Caffè non diminuisce lustro all’opera, anzi la arricchisce di valenze particolari legate ai costumi dell’epoca. Se nel complesso la decorazione degli stucchi può definirsi floreale, in più di un particolare è possibile cogliere quell’accento eclettico che non può far a meno di continui richiami al mondo classico. Nel lavoro decorativo il Curri si avvalse della collaborazione di Gaetano D’Agostino e Salvatore Cozzolino, mentre una vasta rappresentanza di pittori trova spazio sulle pareti e nei vani delle finestre, espediente che permetteva di mettere in mostra la ricca decorazione anche di passanti.
I quadri nel loro insieme sono rappresentativi della tipologia della produzione napoletana di fine secolo, contrassegnata dal vedutismo di squarci naturalistici en plain air o da ritratti di giovani popolani e popolane o rappresentanti del bel mondo sempre colti in pose naturali come in uno spaccato di vita quotidiana. Tuttavia, pur nell’imprescindibile marchio di napoletanità, è possibile in tra ve de ne alcuni aspetti collegati alle correnti estetiche di discendenza francese e austriaca.
Il tutto fa della galleria dei saloni del Gambrinus un monumento omogeneo rappresentativo del panorama pittorico e decorativo della seconda metà del secolo, tale da richiedere un approfondimento di studi che ne rivaluti il ruolo, la funzione ed il valore monumentale.

AL GAMBRINUS

Chi avrebbe creduto che dalle affumicate sale del Gran Caffè sarebbe sorta, luccicante di dorature, adorna di quadri e di bassorilievi come un piccolo museo, la birreria Gambrinus? Eppure il miracolo si operò in poco più di due mesi per opera di Antonio Curri e di Mariano Vacca: di Antonio Curri artista ed ingegnere squisito che seppe trasfondere in tutti i più minuti particolari delle decorazioni il gusto e l’eleganza dell’arte sua: di Mariano Vacca che coraggiosamente profuse migliaia di lire per dare finalmente a Napoli il caffè, che fino a quel momento mancava. La sorpresa fu in tutti grandissima, e ricordo ancora lo stupore degli invitati nella sera che precedette la inaugurazione. In quelle sale candide, dove alitava un soffio di pura arte, la folla si allargava fermandosi poi a gruppi, qua e là, davanti ad un quadro come in una esposizione. Si credeva di essere più in un museo che in un caffè, e l’idea che un giorno tutti avrebbero potuto entrarvi liberamente parve a taluni una profanazione. Ma la bionda birra di Monaco spumeggiò ad un tratto nei bicchieri, e tra quei bicchieri spumanti apparve per la prima volta Sigismondo Sterra, lisciato, pettinato, impomatato, rigido come una marionetta nell’abito nero, nel colletto alto e duro come un collare; apparve, e parlò mostrando una cultura sbalorditiva….. in fatto di birre. Parve anzi a molti che per virtù miracolosa egli fosse scattato fuori da un book. Poche sere dopo il Gambrinus divenne il ritrovo della società più elegante, e le sue sale, dopo la mezzanotte, furono invase per la prima volta, da uno stuolo di belle signore uscenti allora allora dai teatri ancora scollate, scintillanti di gioielli, avvolte in morbide e costose pellicce. Il Gambrinus, a quell’ora si muta in salone aristocratico. Andateci invece prima della mezzanotte, e lo vedrete popolato di artisti tra i quali non vi sarà difficile trovare tutti quelli che non poco hanno contribuito alla bellezza estetica di esso. Esposito, Volpe, Pratella, Caprile, Postiglione, Fabron, Casciaro, Migliaro, Campriani, de Sanctis, Cepparulo, de Matteis, Irolli, Matania, Scoppetta, Diodati, son quasi sempre lì a discorrere animatamente intorno ad uno o due tavolini col creatore del Gambrinus, Antonio Curri. Entrando vi par quasi di essere a casa vostra tra buoni amici, anche perché non manca mai di accogliervi il sorriso benevolo di Raffaele Vacca, il più gentile, il più premuroso, il modello dei proprietari di caffè napoletani.

La Tavola Rotonda – 1891


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07. Canti di miniera, amore, vino e anarchia

Simone cristicchi – Canti di Miniera,Amore, Vino e Anarchia

Ogni luogo dove andiamo a cantare..si trasforma magicamente in OSTERIA

Sito Ufficiale CristicchiSito del comune di Santafiora

Un articolo estivo su “Repubblica” ..

Ho conosciuto il coro di minatori grazie a un amico che mi ha portato a Santa Fiora, paese sulle pendici del Monte Amiata – racconta il cantautore romano – La prima volta li ho sentiti cantare in una cantina: sono rimasto folgorato e mi è venuta subito l’idea di portarli su un palco vero davanti a un pubblico più vasto. Così è stato, abbiamo costruito insieme lo spettacolo cantando le loro canzoni alternate a monologhi sulle loro storie”.

Cristicchi ha cominciato un lavoro di ricerca e di recupero di questo repertorio di canzoni tradizionali che vengono tramandate oralmente e che sono strettamente legate alla vita dei minatori. Contrariamente al buio e alla fatica delle loro condizioni di lavoro, i canti sono allegri e variopinti, come i giorni di festa in cui venivano eseguiti.

“Alla ricerca musicale si è affiancato il tema della memoria – prosegue – incontrando le persone e i parenti dei minatori, morti sempre troppo giovani. Alla fine è diventato uno spettacolo di teatro e canzoni, che ha acquisito un valore civile e sociale perché racconta lo sforzo dei minatori che hanno contribuito a ricostruire l’Italia nel dopoguerra”.

“Ho incontrato molte persone, ho visitato altre miniere, anche in Sardegna” dice Cristicchi, diventato un esperto. “Il coro in particolare ha contribuito raccontandomi storie e aneddoti, ora riportati nei monologhi in cui cerco di dire al meglio e con le loro parole quello che era il loro mondo. Ho voluto che restassero così come li ho visti in quella cantina, perché hanno un modo naturale di stare sul palco, con una semplicità e una purezza che sono la forza dello spettacolo”.

Ogni serata è diversa dall’altra perché cambiano gli ospiti. “Camilleri va abitualmente in vacanza a Santa Fiora ed è stato semplice coinvolgerlo nello spettacolo, ha accettato con entusiasmo, lui come Laura Morante, nata a Santa Fiora, che torna nel paese di origine. Il bello è che rimane un progetto aperto, che si arricchisce di richieste in posti meravigliosi che si riempiono ogni volta, ed è impreziosito dalla partecipazione di Alessandro Benvenuti, Ginevra Di Marco, Mannarino. Mi hanno già dato la disponibilità Ascanio Celestini, Gianmaria Testa, e anche Erri De Luca che sarà a Torino”.

* * * * *

la storia del corominatori ..

Il Coro dei minatori di Santa Fiora si costituì in occasione della partecipazione alla trasmissione RAI “Voi ed io” condotta da Ernesto Balducci, nel 1977. Prima di allora, il gruppo (Tizzo, Amerigo, Lellone ecc.) che avrebbe costituito il Coro, era solito cantare in maniera estemporanea nelle osterie, soprattutto il sabato e la domenica: “ci si trovava – riferisce il Binda, uno dei protagonisti originari – da Natalina, al Mambo, da Smeralda o da Boccabella [tipiche osterie santafioresi che non esistono più]. La domenica era tutto un canto.Normalmente si cantava senza accompagnamento musicale, solo le voci, con l’uso del bèi-boi. Principale animatore del Coro era Tizzo, che, insieme ad Amerigo, faceva spesso la prima voce. Poi c’era Lellone, minatore, impegnato politicamente. Quando si andò la prima volta a Firenze (1977), si viaggiò con il furgone di Aldo Balducci e si dormì a Badia Fiesolana. Avevamo portato qualche fiasco di vino per noi (si sentiva ai microfoni il glu-glu quando riempivamo i bicchieri) e un paniere di castagne per Ernesto”.
Il Coro partecipò poi al Festival del folklore canoro amiatino organizzato dal Circolo “La melangula” (ne era principale animatore Ennio Sensi), a varie manifestazioni organizzate per sostenere la lotta dei minatori contro la chiusura delle miniere, al Festival dell’Unità di Grosseto e di nuovo alla trasmissione RAI “Voi ed io”, ospite di Balducci, nel 1978. Secondo Binda il gruppo non è stato in vita più di due-tre anni perché l’inserimento di nuovi elementi creò attriti e problemi.Così Balducci presentava il gruppo alla RAI nel 1977:”Questa mattina gli ospiti della trasmissione non sono personaggi illustri ma un gruppo di minatori del Monte Amiata, precisamente di Santa Fiora. Sono dieci amici, scelti da me non con criteri politici o sindacali; non so nemmeno di preciso a quale partito appartengano, a quale sindacato siano iscritti, per chi votino. Sono amici d’infanzia che ho ritrovato via via nei brevi soggiorni estivi al mio paese, nelle osterie dove insieme con loro anch’io ogni tanto mi ritrovo per parlare del nostro passato e per cantare, rinnovando così certe gioie antiche che in un tempo tanto crudele sembrano quasi impossibili. Insieme con loro rivivo le emozioni di una vita terribilmente beffata dalla miseria, come loro stessi sapranno dire, eppure ricca di virtù e di sentimenti che rappresentano ancora un patrimonio straordinario per noi. Sono, i minatori qui presenti, come l’ultimo residuo di un mondo antico. Rassomigliano straordinariamente ai nostri genitori, a mio padre e ai loro rispettivi padri. Questi miei amici hanno salvato un tipo di umanità schietta che nemmeno tutti gli operai hanno salvato; spesso, infatti, essi, nel clima della civiltà dei consumi, hanno ambizioni e modi di vivere che rassomigliano molto a quelli borghesi. Questi miei amici minatori conservano un’autenticità umana, una fierezza che li tiene distanti dalle ambizioni e dai conformismi della società di oggi. Vorrei presentarvi… anzi facciamo una cosa, presentatevi da voi, dando il vostro nome e cognome e, se volete, anche il soprannome, che è un’altra finezza della cultura popolare. Ecco, comincia, tu.
I minatori: Gabriello detto Lellone, Evangelisti Luigi detto Tizzo, Panichella Aldo detto Binda, Bani Giuseppe detto il Treccino, Bindocci Mario detto Pipetta, Uberti Eraldo detto Bronzone, Balducci Aldo detto Maconne, Domenichini Amerigo detto Gerbi, Martinelli Mario detto il Ghego, Celli Dante.”Le canzoni presentate alla trasmissione del 1977 furono 5: La Puscina (con una variante: il Coro canta “…andando a spasso alle Cascine” invece che “… andando a spasso alla Puscina”), Vallerona, Lisa di Santino, Il mulinaro e La miniera (la famosa canzone di Cherubini-Bixio). Le prime tre sono eseguite con la tecnica del “bèi”; le ultime due con stile corale.
Nel 1978 il Coro, nuovamente ospite della trasmissione di Balducci, eseguì 4 pezzi: Oh bella bella e Stornelli sanatafioresi (“Ti credi d’esse’ bella…, strofe documentate dal Galletti nel 1913), eseguiti con la tecnica tradizionale del “bèi”, Venite sull’Amiata, un pezzo di attualità dedicato alla crisi mineraria composto dal Coro stesso, e Un amore a Santa Fiora di Alfio Durazzi, detto “Il Menestrello” (che in questa occasione accompagnò il gruppo suonando la chitarra).
Molte altre le canzoni che il Coro interpretava dal vivo (ne abbiamo un’idea dalla cassetta autoprodotta Ricordando Tizzo che raccoglie registrazioni diverse e fatte in più occasioni), quali Maremma, Quando la notte gira per incanto, Bussa bussa (la porticella), Liolì liolà, La campagnola, Pescator di Feniglia, Era d’estate.Dopo lo scioglimento del gruppo, la sigla de “I minatori” fu ripresa da Alfio Durazzi che costituì un proprio gruppo , la cui esperienza è documentata da due cassette autoprodotte nel 1983 , caratterizzato dalla presenza di due chitarre, l’abbandono della tecnica del bèi (ma non dei controcanti) e la preponderanza di pezzi d’autore (oltre 1/3) nella scelta del repertorio.Tra il 2003 e il 2004, su impulso dell’associazione Consultacultura, nasceva un nuovo gruppo di musica popolare che riprendeva, come chiara forma di omaggio e continuità con il repertorio del gruppo degli anni ’70, la sigla Coro dei minatori.L’organico è variato nel tempo e, ad un nucleo “storico” stabile – Giuliano Martellini, Piero D’Amario e Lino Nucciotti alle voci, Lucio Niccolai alla chitarra e Giuliano Travi alla fisarmonica – si sono aggiunti via via, nel corso del tempo, altri componenti. Il Coro, che si riunisce settimanalmente a Consultacultura (Santa Fiora, Via Marconi 93), con l’immancabile “merendina” – “il nostro menù è il vino”, ma, insomma, anche un po’ di cacio, di salame, di salsiccia e, a volte qualche zuppa di funghi e fagioli o un’acquacotta – è attualmente formato da: Giuliano Martellini, (cl. ’48), ex forestale, pensionato,prima voce; Piero D’Amario (cl. ’45), mobiliere, prima e seconda voce bassa; Lino Nucciotti (cl. ’28), ex vetturino con muli, prima voce, controcanti e cori; Lucio Niccolai (cl.’52), insegnante di lettere, ricercatore e coordinatore del Coro, chitarra e, occasionalmente (finché gli altri non hanno imparato i pezzi) prima voce; Giuliano Travi (cl. ’43), detto “il genovese”, ex operaio Sip ed ex “camallo”, fisarmonica con “50 anni di folklore” alle spalle; Renzo Verdi (cl. ’56), operaio e Sindaco di Santa Fiora, prima voce, controcanti e cori; Gianluca Detti (cl ’57), detto “Mocone”, gestore del Franchino garage (luogo d’incontro prediletto del Coro) e della Locanda Laudomia a Poderi di Montemerano, controcanti e cori; Ennio Sensi, (cl. ’50), insegnante di lettere, esperto di tradizioni popolari santafioresi, cori; Enzo Marelli (cl. ’28), detto “Tascapane”, ex cavatore, cori; Mauro Bernacchi (cl. ’53), libero professionista, cori; Stefano Battisti (cl. ’56), impiegato, cori; Giammarco Nucciotti, (cl. ’89), chitarra, controcanti e cori; Antonio Pascuzzo (cl), direttore artistico del The Place, conduttore sul palco del Coro, prima voce e controcanto; Osvaldo Ballerini (cl. ’29), boscaiolo, legnaiolo e scalpellino, seconda fisarmonica.

Il gruppo ha visto crescere progressivamente la propria capacità di interpretazione, di recupero, riscoperta e valorizzazione autonoma del repertorio tradizionale (una cinquantina i brani in scaletta)e nel corso della sua pur breve vita associativa, ha già realizzato un cd, allegato al libro di Lucio Niccolai Canti di maremme e di miniere, amore, vino e anarchia, e partecipato a numerosi eventi e manifestazioni: dalla Triennale delle culture anarchiche e libertarie di Firenze, alla Festa di Santa Barbara a Charleroi (Belgio), da feste e iniziative culturali locali a rassegne di musica popolare (da Grancia di Grosseto, a Firenze, da Monticello Amiata al The Place di Roma, da Roselle – Parco di Pietra – a Frigolandia, da Sesto San Giovanni a Verona per il Tocatì) e ha collaborato recentemente (estate 2009) con Simone Cristicchi alla realizzazione di uno spettacolo dedicato alle miniere intitolato Canti di miniere, amore, vino e anarchia che ha percorso l’Italia in lungo e largo, da Torino a Melpignano, da Zevi di Verona a Ascoli Piceno.

Tra i pezzi più significativi del repertorio si ricordano: La Puscina, uno dei pochi pezzi del repertorio santafiorese dove si parla esplicitamente dei minatori; Oh bella, oh bella, un pezzo probabilmente originario di Santa Fiora (non se ne conoscono altre versioni simili nell’area circostante), nei cui versi compaiono delle belle e originali metafore; Vien la primavera, una canzone dai forti connotati sociali registrata nell’area di Castell’Azzara; Lisa di Santino, un pezzo originariamente strutturato con la tecnica del bèi; Stornelli (Bella se voi veni’) con strofe già documentate e raccolte nell’Ottocento; Vallerona (un luogo topico del viatico dei minatori verso la Maremma e le Colline metallifere); Volemo le bambole (diventata una hit con Simone Cristicchi) ed altri della tradizione popolare, ma anche rielaborazioni autonome del Coro a partire da stornelli e strofe già documentati tra la metà dell’Ottocento e i primi anni del Novecento da Stanislao Bianciardi (1840 circa), Tigri (1869) e Galletti (1913), quali, Serenata, La monella, Mamma non mi manda’ alla fornacina, Oh gentilina, No no alla guerra.

storia..

SITO quasi ufficiale con info e news..

*****

E.Balducci era nato a Santa Fiora e il papà faceva il minatore…altra tempra di preti quelli di quella generazione post-concilio oh YES!

http://www.fondazionebalducci.it/balducci_01.htm

l’unica canzone popolare di quella zona che conoscevo e’ Maremma amara..
http://archiviotradizionipopolarimaremma.comune.grosseto.it/index.php/tradizione-orale/canto-popolare
in questo sito si trovano alcuni testi di canto popolare maremmano e si riparla della tradiz dei canti di maggio

Caterina Bueno.
http://www.corodeglietruschi.it/cdcaterina.htm

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06. La tradizione del Maggio in Toscana

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Altro Approfondimento

La tradizione del Maggio

La tradizione del “maggio” che si festeggia ancora in Toscana deriva dalla antiche feste pagane, dedicate alla dea Flora, con cui si accoglieva la stagione pri

maverile. L’etimologia del maggio è legata a Maja, una delle più antiche divinità laziali, la madre di Ermes di origine greca; questa dea della fertilità agreste nel Medioevo subì l’influsso delle popolazioni nordiche che introdussero nel rito centrale della festa l’albero, simbolo di rigenerazione e di forza, che ancora oggi compare in tutte le manifestazioni dove si celebra la ricorrenza.

Ci sono due forme con cui si celebrano questi riti, la prima prende il nome di maggio lirico, la seconda maggio drammatico.
Il maggio lirico si svolge nella notte fra il 30 aprile e il primo maggio (l’antico calendimaggio): gruppi organizzati si muovono per poderi e case della campagna: quello drammatico è invece una vera e propria rappresentazione scenica con tanto di testo basato su una storia cavalleresca, mitologica o religiosa.

IL MAGGIO LIRICO

Testimonianze di queste rappresentazioni sono assai diffuse e ben conosciute nella letteratura, non solo popolare. In Toscana fin dai tempi di Lorenzo il Magnifico si organizzano manifestazioni per celebrare l’inizio della stagione “dei fiori”. L’usanza di offrire un alberello alla donna amata, portandolo davanti alla sua abitazione ed accompagnando il gesto con poesie e musica è testimoniato da illustrazioni e testi scritti:
Ben venga Maggio
e il gonfalon selvaggio,
cantava in una sua lirica Agnolo Poliziano. Da alloro l’usanza si tramanda nei secoli fino ai nostri giorni. Valga per tutte questo “coro di contadini” del XVII secolo tratto dalla Serenata rustico civile (fatta a varie ville di Castello la sera antecedente al primo giorno 1° di maggio). Si tratta di un canto di maggio scritto da Francesco Baldovini ed inserito in un suo dramma scherzoso; la maledizione che conclude questa serenata è ancora oggi attuale nelle maggiolate toscane, in particolare nel Mugello.

TRUPPA DI CONTADINI

No’ siam gente tribolata,
fame e sete ci trascina ;
e giugnendo ov’è brigata
facciam festa alla cucina ;

diamo altrui spasso e piacere
ma vogliam mangiare e bere.

Però dateci frittate,
quarti a lesso, e quarti arrosto,
uova, cacio, e carbonate,
mangeremo il sol d’Agosto.
Non è tempo d’indugiare
date quae, che state a fare ?

Chi ci dona è un uom galante
e di collo non ci casca,

chi non vien poi di portante
no’ l’abbiam di posta in tasca.
Chi ci dà molto più riabbia
chi non dà gli dia la rabbia
chi non dà gli dia la rabbia.

Ed ecco riproposta la maledizione in un moderno canto di maggio proveniente da Barberino di Mugello, con le strofe che augurano la mala sorte a chi non offre doni:

Che v’entrasse la volpe nel pollaio
E vi mangiasse tutte le galline

Che v’entrassero i topi nel granaio
E vi muffisse il vin nelle cantine
Un accidente al padre e uno alla figlia
E il rimanente a tutta la famiglia.

Anche canti e balli accompagnavano fin dai tempi più remoti la sera del calendimaggio, come questa antica quartina che è stata rintracciata in una canzone del maggio datata 1614:
Lasciamo ir malinconia
Da che poi di Maggio siamo
Canti e balli noi facciamo

Quel ch’ha esser convien che sia.

Così ancora oggi, riprendendo le antiche usanze, in varie parti della Toscana (Mugello e Maremma ma anche lucchesìa e pisano) gruppi di giovani e di fanciulle fra la notte del 30 aprile e il primo di maggio, si recano di casa in casa, nelle aie dei contadini accompagnandosi con suoni e canti. Ad ogni visita il poeta chiede con una o più ottave improvvisate il permesso di entrare, celebrando le lodi della famiglia e augurando una buona annata di raccolti, mentre uno del gruppo detto alberaio reca l’albero (in antico majo), simbolo di felicità e di buon augurio; dopo il saluto si chiederanno con un canto di questua doni in natura (oggi si accetta anche il denaro), magari salutando con una serenata le fanciulle o le signore presenti. Con i doni raccolti (in grosso corbello portato a spalla dal corbellaio) si organizzerà poi la ribotta, festa collettiva con pranzo a cui intervengono tutti i maggerini (o maggiaioli) ma anche chi ha portato doni e desidera partecipare al rito collettivo. In Maremma questa tradizione è ancora molto sentita e raccoglie sempre ampi consensi da parte della popolazione non solo rurale.
Tutti gli anni il poeta, su tematiche contemporanee, compone un nuovo testo che si accompagna alla musica rituale.
La squadra dei maggerini, ognuna nel suo costume tradizionale, può variare a secondo dei luoghi; generalmente è composta da uno o più poeti, dall’ alberaio che reca l’albero simbolo della fertilità, dal corbellaio che è addetto alla raccolta dei doni; seguono i musicisti con gli strumenti (fisarmonica) e i maggerini cantori; in epoca recente sono stati accolti nel gruppo anche le donne che prima non vi prendevano parte.
Aggiungiamo a questa usanza, che viene detta del maggio profano, una variante religiosa: il maggio sacro o delle anime purganti, dove invece di propiziarsi con canti e balli la buona stagione, si chiede un suffragio per le anime dei defunti, celebrazioni simili si svolgono ancora nel Mugello con estensione anche al di là dell’Appennino toscano, dove esiste, nel modenese, un maggio delle ragazze. Anche in questa forma si ripete il rito della questua.
Da segnalare che il repertorio di canti viene quasi sempre offerto dal gruppo agli ospiti pubblicato in fogli volanti se non addirittura libretti stampati.

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05. Breve storia dell’ottava rima in Toscana

BREVE STORIA DELL’ OTTAVA RIMA IN TOSCANA


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di Alessandro Bencistà

LE ORIGINI

L’origine moderna della poesia in ottava rima (narrata e/o improvvisata) è da legare al canto dei trovatori che, con la diffusione delle lingue volgari venute d’oltralpe furono accolti nelle corti d’Italia, specialmente in Sicilia a quella di Federico II e poi in tutta la penisola. Contrasti che ci sono pervenuti da questa primitiva “scuola” appartengono all’ area genovese, siciliana, lombarda, umbra. Sarà poi Firenze, la città della nascente borghesia, a raccogliere il vastissimo patrimonio di canti, contrasti, poemi, favole e quanto altro fosse gradito al numero sempre crescente di abitanti che si stava ammassando entro la cerchia delle mura e nell’immediato contado; l’ambiente più frequentato per questo spettacolo popolare era la piazza, nel caso nostro quella del Mercato Vecchio e l’altra vicina di San Martino, ambedue situate nell’area dell’antico centro della “cerchia antica”.
Da qui può partire una sommaria ricerca sulla nascita e diffusione del canto estemporaneo, che trovò subito il suo metro adatto nell’ottava rima, siciliana e toscana; quella toscana (ABABABCC) deriva da un componimento in lingua francese, “Au renouvel de la douçur d’esté”, del poeta Gace Brulé, che si può datare sicuramente fra il 1180 e il 1185.

Questo rimatore provenzale era senz’altro molto conosciuto alla corte di Carlo d’Angiò, ciò porta a concludere che anche l’ottava toscana, come la siciliana sia stata importata dalla Francia. Ciò ovviamente, nulla toglie al peso storico dell’iniziativa di Giovanni Boccaccio, quando assunse l’ottava a strofe dei suoi poemi narrativi; fino al 1340, in quel suo splendido periodo giovanile risiede a Napoli, dove frequenta assiduamente la corte angioina, dove apprende questa maniera di cantare che al suo rientro fiorentino utilizzerà come metro nei suoi poemetti. una di queste prime ottave è presente nel suo Filocolo (1336) cui seguiranno, il Filostrato, il Teseida e il Ninfale fiesolano, che ebbero una grande diffusione in Firenze. Questo è da considerare un punto fermo nella storia dell’ottava, anche se la ricchezza e la complessità della storia, resta aperta sempre a nuove ipotesi derivanti da improbabili ma non impossibili scoperte.
Soltanto nella metà del Trecento inizia la diffusione nell’ambito popolare dei cantàri e poemetti in ottava (ma anche in terzine), cioè nell’età di Antonio Pucci e del poco più giovane Franco Sacchetti; sono loro i primi ad iniziare la storia del contrasto facendo uso del metro boccaccesco, metro che durerà con poche variazioni fino al Morgante del Pulci, alla Nencia di Lorenzo de’ Medici e ai Reali di Francia dell’Altissimo; si consegna così al Boiardo, all’Ariosto e al Tasso una vastissimo materiale di storie, leggende e cantàri senza il quale non sarebbe stato possibile creare quei mirabili capolavori di poesia e di avventura che sono i poemi cavallereschi.

Con questi poeti l’ottava raggiunge le massime altezze rinvigorendo ancora di più il modulo popolare che a “nuova vita restituito” giungerà con i suoi epigoni fino alle soglie dell’epoca contemporanea passando attraverso il Menchi, il Sestini, il Niccheri, la letteratura muricciolaia e i quattrocento libretti da due soldi (dieci centesimi) della editrice fiorentina di Adriano Salani.
Possiamo dunque ammettere che la nuova tecnica dell’ottava ha largamente contribuito a codificare in una composizione scritta moduli e tecniche della recitazione orale, evoluzione ormai da considerare qualcosa di più che un’ipotesi probabile che trova corrispondenza in una documentata elevazione sociale e letteraria dei cantastorie di cui alcuni, come il Pucci, non sono certamente rozzi o incolti come sono stati definiti da certa critica, ma attenti e fini conoscitori della produzione letteraria non solo volgare, ma anche classica; per rendersene conto basta leggere attentamente la produzione del campanaio fiorentino, dai sirventesi, alle rime, al Centiloquio, un’opera così vasta che si stenta a credere come il banditore ufficiale del comune di Firenze abbia trovato il tempo per comporla tutta.

LA POESIA ESTEMPORANEA DAL 1300 AL 1800

Alla fine del Trecento dunque contrasto e poema in ottava si sono ormai imposti e costituiscono un genere autonomo. Esiste anche un “Trattato dei ritmi volgari” scritto nella seconda metà del Trecento (del veronese Gidino di Sommacampagna) che rifacendosi ad un analogo trattato in latino del padovano Antonio da Tempo, descrive minuziosamente questa forma di poesia; ci dice che era cantato da due compagni su una stessa materia che i due si chiamano opponente e rispondente, che ciascuno canta una stanza di otto versi di undici sillabe di cui sei versi con due sole sillabe (rime).
Dopo il Pucci e il Sacchetti questi cantari in rima si estendono in tutta l’area della Toscana ed oltre, il Quattrocento sarà il secolo in cui si consolida il primato culturale di Firenze.
Contrariamente al “maestro” che non lasciò mai Firenze e le sue campane, i cantastorie che ne hanno adottato il modulo, giravano di città in città, di fiera in fiera, ovunque ci fosse una festa (laica o religiosa non fa differenza) e di conseguenza una folla numerosa disposta ad ascoltarli. Spesso venivano anche ingaggiati e pagati dai comuni allo scopo di dilettare popolo e signori. A Firenze avevano un luogo fisso, quasi uno spazio teatrale, ed era la piazza di S.Martino, poco distante da piazza della Signoria. Il popolo si sedeva su delle panche, su una più alta, come una specie di pulpito, saliva il canterino (da questa abitudine il nome di cantimpanca) che si esibiva accompagnandosi con una chitarra o liuto e dimostrando una certa pratica, affatto superficiale, della musica.
Il Poliziano, che non disdegnava le improvvisazioni in latino, lodò in un suo scritto un certo Antonio di Guido che ebbe tanta fama intorno al 1450. Alla sua morte l’umanista Luca Landucci (1486) ne parlò come il più celebre nell’arte di cantare all’improvviso.
Scrive un suo contemporaneo di averlo sentito cantare nella piazza di S.Martino le guerre d’Orlando con tanta eloquenza che pareva di udire il Petrarca, e considerando la fama secolare del poeta d’Incisa ci sembra un riconoscimento degno di nota.
Peccato che non siano pervenuti fino a noi esempi della poesia di questo Antonio di Guido.
Fra i molti fiorentini che si esibirono in questa piazza si racconta anche di Lorenzo il Magnifico, di suo figlio Piero e del Pulci.
I poeti improvvisatori fiorentini venivano ingaggiati da altri comuni per far divertire il popolo e i signori e, a quanto risulta, venivano pagati lautamente; in un documento rintracciato da Alessandro D’Ancona è registrata anche la cifra con cui alcuni di questi vennero stipendiati dal comune di Perugina che li ingaggiò a Firenze: quaranta fiorini d’oro, non pochi se si pensa che nello stesso anno fu “allogata” la celebre cantoria del duomo di Firenze a Luca della Robbia e abbiamo due documenti che riportano uno stanziamento di sei fiorini.
Si ricorda ancora un Cristoforo Fiorentino detto l’Altissimo che ridusse in ottave i “Reali di Francia” di Andrea da Barberino; visse costui dal 1480 al 1514, fu uno dei più celebri cantori in panca e i suoi versi furono anche stampati a Venezia nel 1514 e nel frontespizio dell’opera si legge Reali di Francia di M.Cristoforo Fiorentino detto l’Altissimo, poeta laureato cantato da lui all’improvviso, ma non si capisce bene chi fu a “laurearlo” poeta. Un altro suo poema, “La rotta di Ravenna”, fu stampato con la scritta: In S. Martino di Firenze all’improvviso, dell’Altissimo, poeta fiorentino, poeta laureato, copiato dalla viva voce da varie persone mentre cantava.
Una certa fama sicuramente ebbe il “gran lume aretin l’Unico Accolti” di cui parla l’Ariosto nel suo Furioso; Benedetto Varchi nella sua commedia “La suocera” ricorda infine le farse di Battista dell’Ottonaio e di Nanni Cieco. Un’altra testimonianza autorevole è quella di Benedetto Dei, che nella sua Cronica ci riferisce di cantari e sonetti.
In un codice della metà del Quattrocento si trova un serventese col “Bisticcio dell’acqua e del vino” che ancora nel secolo seguente sarà stampato col titolo “Contrasto de l’aqua e del vino” in ottave. E’ un tema ancora oggi caro ai poeti estemporanei, soprattutto considerando il fatto che in Toscana quasi ovunque il vino era considerato come un alimento indispensabile e in quasi tutti i contrasti sull’argomento si ricorda un celebre distico con cui una non meglio identificata poetessa alla quale era toccato di interpretare la parte dell’acqua, alzando il bicchiere chiuse l’ottava con questi versi : “Tu sei carina e lodar ti devo / mi ci sciacquo le mani ma ‘un ti bevo”.

L’OTTOCENTO

Vogliamo iniziare a parlare dei poeti estemporanei dell’Ottocento ancora con una donna, che non ha nulla a che vedere con le poetesse “colte” di ambito arcadico.
Stiamo parlando di Beatrice Bugelli di Pian degli Ontani, o la “poetessa pastora” come è anche conosciuta. Con lei incomincia la storia della poesia di improvvisazione moderna che, con ovvie mutazioni legate al divenire storico e sociale, giungerà pressoché inalterata fino ai nostri giorni.
In questa epoca la regione ove più si conserva e si sviluppa il canto popolare è la montagna pistoiese, o forse, senza nulla togliere ad altre regioni in cui la tradizione canora e poetica è ricchissima (lucchesia, Mugello, Casentino, Maremma) il caso volle che eminenti letterati e amanti delle tradizioni popolari, il cui studio si sviluppò enormemente in epoca romantica, furono assidui frequentatori di queste montagne e lasciarono nei loro scritti una ricca documentazione, Niccolò Tommaseo per primo con la sua Gita nel Pistojese dell’ottobre del 1832.
Ma ritornando alla nostra Beatrice Bugelli va ricordato anzi tutto che questa poetessa è ancora oggi, ad oltre un secolo dalla morte, un mito nella memoria storica e affettiva dei poeti estemporanei.
Nata nel 1802 nel comune di Cutigliano era figlia di uno scalpellino e rimase orfana di madre quando ancora era bambina; seguì quindi il padre per tutta la sua infanzia, dalla montagna pistoiese alla Maremma. Analfabeta come la maggior parte dei montanari, fu però dotata fin da piccola di una memoria prodigiosa che l’aiutò ad imparare a recitare lunghi brani poetici. Pur non avendo lasciato nulla di scritto è considerata fra i più grandi poeti improvvisatori dell’Ottocento. Non staremo qui a raccontare per esteso le vicende della sua lunga e dura vita, quasi tutta trascorsa nella montagna pistoiese; si occuparono infatti di lei insigni studiosi, da Niccolò Tommaseo, al Rossi-Cassigoli a Francesca (Ester Frances) Alexander, figlia di un ricco americano di Boston che la frequentò a lungo e che ci lasciò la maggior parte delle testimonianze scritte sul suo canto insieme ad una consistente mole di disegni e testi con musica, Francesca Alexander (la Toscana era diventata ormai la sua patria) fu la sola e grande amica di Beatrice, nella montagna pistoiese trascorse lunghi periodi della sua vita; di lei scrisse che “fu una delle donne più meravigliose che ho conosciuto…anche se la chiamano Beatrice di Pian degli Ontani, lei veramente vive a Pian di Novello…la sua casa è nella valle del Sestaione e se c’è un posto nel mondo più bello di quella valle io non l’ho ancora visto”.
Anche il Pascoli, giovanissimo, volle andarla ad udire dalla sua Romagna; Giovambattista Giuliani, famoso dantista e autore delle “Delizie del parlar toscano” scrisse di lei che “Ha un par d’occhi grandi e nerissimi…nella sua fronte rilevata e aperta sfavilla l’ingegno” (Sul vivente linguaggio della Toscana). Lo stesso Giuliani scrive in una lettera al Tommaseo: “Ebbi pur finalmente la consolazione di vedere l’ammirabile Beatrice di Pian degli Ontani e d’ascoltarne il soavissimo canto, incredibile a chi non l’ode. Ell’è davvero un portento di natura: il suo verso prorompe di limpida e larga vena, e si dispiega abbondante né fallisce mai…per divino istinto s’apre e diffondesi a cantare di poesia, mentre pur bada continuo al bestiame.”
Da questi autori riprendiamo le notizie di contrasti poetici a cui fu chiamata Beatrice, che continuò ad improvvisare fino alla vecchiaia e la sua casa fu ancora la meta di molti poeti. L’ultimo fra gli scrittori che la conobbe viva fu Renato Fucini che scrisse: “..al Pian di Novello, nella misera casetta dove io la vidi agonizzare”.
L’Ottocento non fu certo avaro di poeti improvvisatori, se ne enumerano ancora molti; tuttavia il giudizio che ne scaturisce non sempre è positivo come nei riguardi di Beatrice Bugelli; strimpellatori , mestieranti, triviali, grossolani, sono alcuni degli aggettivi con cui si conclude il giudizio sui poeti estemporanei; ma si tratta del giudizio della critica che ovviamente non intacca la fama di cui questi poeti godettero fra la gente comune.
Ricorderemo fra i più noti: Giuseppe Moroni detto il Niccheri, che ci ha lasciato fra le altre cose un poemetto in ottave sulla Pia de’ Tolomei su cui avevano già cantato Bartolomeo Sestini e Giuseppe Baldi. Lo sottolineiamo perché la Pia del Niccheri ebbe una fama straordinaria: diffusa prima su fogli a stampa, riuscì nel 1875 nei librettini della Casa Editrice Salani che arrivò a stampare e diffondere in più edizioni oltre 70.000 copie; uno sproposito per quell’epoca. Ancora oggi queste ottave del Niccheri risultano fra le più amate e conosciute delle storie in rima e vengono ricordate a memoria in tutta la Toscana.
Fra i poeti ottocenteschi citeremo ancora Anton Francesco Menchi, nato nel 1762 a Cucciano nella montagna pistoiese, fu come scrisse il Giannini, il più celebre cantastorie e poeta popolare del suo tempo in Firenze. Racconta un contemporaneo, Giuseppe Arcangeli, che improvvisava nei giorni del marcato nella Piazza del Granduca (Piazza Signoria) e richiamava intorno a sé una gran folla di campagnoli, quando suonando il suo tamburello a sonagli faceva uscire come per incanto da una cassetta una faina addomesticata; fu avverso alle idee rivoluzionarie che venivano dalla Francia, cantò gli orrori della novella Babilonia (la Rivoluzione) la morte di Luigi XVI, e la cattura di Papa Pio VI; contrariamente a certi suoi contemporanei che celebrarono le campagne e le vittorie di Napoleone, Menchi fu autore di un lungo canto in cui condannò aspramente le sue guerre “che fecero morire miglioni d’uomini” e infine ne celebrò la caduta.
Ripristinati i vecchi Governi li salutò con giubilo ma non ne chiese favori. Continuò come testimonia l’Arcangeli fino alla vecchiaia il suo mestiere di cantastorie giocando nei mercati con la sua faina e divertendo ancora tutti coloro che lo attorniavano.
Suo è il celebre canto del coscritto “Partire, partirò, partir bisogna” che scrisse quando il Bonaparte ordinò le prime leve. Un canto bellissimo che fu diffuso in tutta la Toscana ed anche fuori.
Lezioni simili di questo canto si ritroveranno poi in diverse raccolte in varie regioni italiane.
Gli ultimi decenni dell’Ottocento segnano il periodo di maggior diffusione della poesia popolare a stampa, le tipografie si stanno ormai avviando la completa ristrutturazione dei macchinari, le moderne tecniche di stampa con la rotativa permettono di ottenere tirature sempre più alte ; il livello qualitativo di questa “letteratura muricciolaia” decade notevolmente, spesso per vendere qualche copia in più si cede al gusto del macabro e/o dell’osceno, arrivando a pubblicare tutto ciò che solleticava la curiosità delle masse popolari, qualche titolo di questi librettini è illuminante : “I cento peccati delle donne”, “Una moglie infedele che uccide i figli”, “Un vecchio che ha sposato dieci mogli”, “Storia di una ragazza che ha cambiato 36 amanti” ecc. ecc. Quanto alla forma metrica è sempre il modulo dell’ottava rima, specialmente il contrasto, ad essere il più apprezzato dalle poco alfabetizzate masse popolari. La casa editrice Salani, da cui abbiamo preso i titoli citati sopra, dal 1875 pubblicò 400 libretti popolari da dieci centesimi, 20-22 pagine in sedicesimo, che saranno ristampate fino al 1930 circa ed ancora oggi sono un punto di riferimento per la conoscenza della letteratura popolaresca.

IL NOVECENTO

Col Novecento la stampa è ormai largamente diffusa accanto alla poesia orale e ne diventa l’ovvio completamento. Spesso nelle fiere e nei mercati questi cantori girovaghi, che fino a pochi decenni prima erano soliti accompagnarsi solo con gli strumenti e poveri fogli volanti ogni tanto sequestrati dalla attenta vigilanza delle guardie di polizia, ora distribuiscono anche dei libretti a stampa con le loro storie, pubblicazioni in fogli o in sedicesimo di cui la casa editrice Salani di Firenze abbiamo visto era stata fra le più attive.
Un’altra casa editrice che si distinse per queste edizioni a carattere popolare, questa volta in prosa anziché in poesia, fu la fiorentina Nerbini; grande diffusione ebbero le storie da romanzo gotico di Ginevra degli Almieri e di Pia de’ Tolomei, libretti che a distanza di un secolo ancora si ristampano (sempre da Nerbini) e trovano un fedele ad appassionato pubblico.
Purtroppo la maggior parte degli originali è andata perduta, è così che la memoria dei poeti e cantori diventa una fonte di documentazione insostituibile per recuperare e tramandare anche interi poemetti. Conosciamo vecchi appassionati che oggi amano recitare e/o cantare a memoria quelle storie tristi e tragiche che un secolo fa erano in bocca ai cantastorie; citiamo per tutti il maremmano Eugenio Bargagli, che pur avendo superato il novantesimo anno è ancora attivo; il poeta improvvisatore di Agliana Realdo Tonti e Bruno Malinconi di S.Giorgio a Colonica.
Altre storie ispirate ad episodi di vita vissuta sono giunte fino ai nostri giorni, recuperando una fama che a quel tempo aveva raggiunto un pubblico veramente esteso; i mass-media odierni ebbero in questi poeti e in questi fogli volanti i loro precursori, divennero scuola a pieno diritto, “ambulante scuola” come la chiamò uno di loro, e questa espressione è diventata un manifesto.
Vogliamo rammentare qualche titolo : la disperata storia di Angelica, “Una Ragazza assalita da tre giovanotti e vendicata dal fratello” che ancora si tramanda di generazione in generazione in Casentino e in Maremma, si tratta di sestine composte da endecasillabi secondo la più consueta tradizione di cui si dice autore L.Magazzini, il foglio è datato 1904. “Il tragico fatto di Pellaro”, Truce delitto di una matrigna, composizione di Pilade Soldaini, senza data (1911?) ma stampato probabilmente nella stessa epoca a Firenze nella tipografia A.Bernardi. Questi fogli hanno ancora una capillare diffusione e la manterranno fino alla fine degli anni Cinquanta, lasciando poi uno spazio ai primi dischi microsolco.

L’OTTAVA RIMA MODERNA

Se dei poemetti o canti raccolti in fogli volanti ci restano non poche testimonianze, non molto resta invece del contrasto improvvisato in ottava rima fino all’avvento di quei rivoluzionari strumenti di documentazione sonora che sono i dischi e i nastri magnetici, questi ultimi soprattutto che incontrarono subito il favore dei poeti, in particolare quelli che avevano utilizzato la loro arte per sopravvivere col piccolo commercio ambulante.
La ricostruzione di alcune fra le maggiori personalità poetiche del Novecento è comunque affidata alla memoria storica dei bernescanti contemporanei; anche se di recente non mancano ampi ed approfonditi studi sulla materia, la maggior parte dei lavori editi riguardano il canto popolare propriamente detto (serenata, stornello, ballata ecc.). Minor interesse ha incontrato presso gli studiosi il contrasto in ottava rima, su cui pesa il giudizio un po’ troppo approssimativo lasciato dagli eruditi ottocenteschi che lo ritenevano rozzo e triviale, quindi non degno di essere trascritto e salvato. Nel secondo Novecento invece l’argomento viene riconsiderato soprattutto ad opera di studiosi insigni come Ernesto De Martino e Diego Carpitella, che ci hanno lasciato una importante documentazione anche sonora.
Ma vogliamo segnalare che il primo esempio cantato del contrasto in ottava rima lo abbiamo rintracciato in un vecchio disco a 78 giri (Homocord) del 1930: mezza ottava inserita in un monologo in vernacolo fiorentino dal comico Giulio Ginanni.
Dalla seconda metà degli anni sessanta cominciano anche ad apparire i primi dischi che i cantastorie e bernescanti offrivano sulle piazze insieme agli altri prodotti del loro piccolo commercio ambulante. In Toscana i più famosi che abbiamo potuto documentare e di cui ancora si riesce a rintracciare qualche disco originale furono attivi nella zona di Firenze (Ceccherini, Piccardi, Logli), di Prato-Pistoia (Andreini) e in Maremma (Eugenio Bargagli, Severino Cagneschi); i primi due gruppi trattano quasi esclusivamente il contrasto in ottava rima mentre Eugenio Bargagli è un vero e autentico cantastorie il cui repertorio spazia dal canto narrativo e/o in quartine o sestine, alle storie satiriche, agli stornelli.
Fra i poeti improvvisatori del primo Novecento che hanno lasciato qualche pubblicazione scritta, ricorderemo anzitutto Idalberto Targioni e Vittorino Poggi, del primo ci restano diverse pubblicazioni, il secondo ha lasciato pochissimo, noi conosciamo solo un libriccino rintracciato nella Biblioteca Nazionale di Firenze; recentemente sono stati pubblicati i contrasti di due concorsi tenuti nel 1938 e 1939 a Querceto di Sesto Fiorentino e organizzati dalla sezione locale dell’Opera Nazionale Dopolavoro, vi parteciparono alcuni dei poeti estemporanei più famosi come Vasco Cai da Bientina, Mario Andreini ( primo classificato) e Giuseppe Masolini di Prato; nel concorso del 1939 è presente anche Gino Ceccherini che nell’immediato dopoguerra diventerà uno dei maggiori protagonisti insieme al collega Elio Piccardi.
Anno XVI dell’ Era Fascista: i contrasti del primo concorso di Sesto sono del tipo madre e figlio, penna e vanga, palombaro e minatore, Bartali e Bini; nel secondo si celebreranno invece i motti del Duce e vincitore risulterà Vasco Cai. Certamente il regime seppe creare un certo consenso intorno alle manifestazioni popolari ma non si creda però che il consenso verso il regime sia sempre stato così manifesto, anche se i gerarchi vigilavano attentamente, ogni tanto qualche manifestazione di aperto dissenso, se non di condanna sfuggiva ai poeti che, non dimentichiamolo sono sempre di estrazione popolare e legati al mondo contadino o del lavoro.
E’ naturale quindi che, caduto il fascismo, anche i poeti estemporanei abbiano dato libero sfogo ai loro sentimenti repressi per vent’anni; violente e truci sono alcune ottave del poeta Mario Andreini di Prato, “Mussolini all’Inferno”, oppure “La fuga di Gambe Corte” che Ceccherini pubblicò in un foglio volante nel 1946, contro il il re che “la guerra la pigliava per uno sporte”.
Commossa invece la descrizione di Firenze distrutta che Ceccherini cantò: ci sono immagini molto belle che ci dimostrano quanta arte poetica ci fosse nell’analfabeta Ceccherini: “Piangere tu gli vedi i Fiorentini / nel perder l’arte con la poesia”, “di vergogne ne abbiamo un monumento”, non senza una certa pietà verso coloro che avevano ridotto l’Italia in quelle condizioni: “Dimolti tu li vedi nel dolore / a capo basso camminando ritti”.

DA VASCO CAI, GINO CECCHERINI ED ELIO PICCARDI A OGGI

Il pisano (di Cascine di Buti) Vasco Cai è unanimemente riconosciuto come il più grande poeta improvvisatore della seconda metà del Novecento. Ne ha tracciato un bel profilo Fabrizio Franceschini nel saggio a lui dedicato, ma non ha lasciato niente di scritto. L’avventura umana e poetica di Ceccherini comincia invece dopo la tragica e dolorosa parentesi della guerra; ci preme richiamare a mente quell’”ambulante scuola” di cui abbiamo parlato prima.
Ceccherini non era da meno di Cai quanto ad abilità nell’ improvvisazione dei temi, chi li ha conosciuti entrambi può renderne testimonianza; più incline ai temi giocosi il primo, sempre pronto allo scherzo e alla facile battuta, quanto serio e riflessivo era Cai. Ceccherini venditore ambulante era abituato al pubblico e al clamore delle fiere e dei mercati, un pubblico che richiedeva da lui un’ora di puro divertimento, anche se pur scherzando il poeta sapeva spiegare con arte la sua visione della vita e della società; Cai esigeva la concentrazione e il silenzio, era consapevole dell’impegno necessario al poeta per esprimere il meglio della sua arte.
L’ambiente in cui operò Ceccherini fu la città di Firenze e i centri del contado, con escursioni anche nel pratese ma senza danneggiare il suo collega Andreini, ambulante anche lui, che aveva il suo territorio operativo fra Prato e Pistoia e fu il suo primo collega di lavoro.
Si unì poi ad Elio Piccardi di Castelfranco di Sopra con cui lavorò fino alla scomparsa. Spesso si univa a loro anche il giovane Altamante Logli di Scandicci, detto “il poetino”. È a loro che ancora oggi dobbiamo molte delle notizie sull’attività dei bernescanti in quel periodo che abbiamo cercato di ricostruire nel nostro volume “I POETI DEL MERCATO” cui rimandiamo per una esauriente antologia dei loro contrasti poetici.
POETI DEL MERCATO, non solo perché Ceccherini e Piccardi erano due venditori ambulanti di lamette e poesia, ma anche per sottolineare la continuità della poesia popolare del Novecento con quella dei secoli passati, a cominciare da Antonio Pucci campanaio, che compone un capitolo in terza rima sulle “Proprietà del mercato Vecchio”, l’ambiente ideale in cui nasce e si diffonde la poesia che trattiamo oggi, una poesia affatto banale, anzi ricca di stimoli e di osservazioni sulla realtà e sull’eterno confronto-scontro fra le classi sociali esistenti, che è anche confronto di cultura, non solo di potere.

Fra i fogli volanti che distribuivano fra un contrasto e l’altro, vogliamo evidenziare “In 50 anni di canto improvvisato / 41 poeti ho presentato”, 12 ottave in cui Ceccherini passa in rassegna tutti i poeti estemporanei allora attivi fra Pistoia, Arezzo e Firenze, non senza una frecciatina contro quei poeti “da vendemmiatura” che fanno “più male che dell’alluvione”. Un modulo già presente nelle ottave del Niccheri e di Vittorino Poggi che ebbe fortuna e sarà ancora utilizzato dal bernescante aretino Edilio Romanelli che pubblicherà nel 1981 addirittura un libro di 400 ottave (una per ciascun poeta fra cui il giovane Roberto Benigni), un vero e proprio censimento degli interpreti del canto popolare in ottava rima.
Ci preme ricordare questo aspetto “letterario” della loro produzione poetica, perché senza il materiale cartaceo non sarebbe rimasto quasi niente dei loro versi. E furono ancora i bernescanti i primi ad usare quegli apparecchi di registrazione allora poco diffusi, che la tecnologia moderna aveva appena incominciato a produrre, come il magnetofono a pile, testimone preciso di molti incontri poetici nelle serate a cui venivano invitati, feste dell’Unità o altre occasioni di intrattenimento. Dall’ascolto di questi vecchi nastri abbiamo potuto mettere a confronto le ottave di autentica improvvisazione con le incisioni semiprofessionali dei dischi in vinile, necessariamente più brevi, essendo il contrasto legato al tempo tecnico di durata del microsolco, quasi sempre compreso fra i quattro e i sette minuti. E bisogna riconoscere che non vi sono differenze sostanziali per quanto riguarda il contenuto delle tematiche, quasi sempre anche il disco inciso in sala di registrazione conserva il carattere immediato e genuino dell’improvvisazione sulle piazze.
Questi contrasti, oltre ad essere di una sconvolgente attualità, conservano ancora intatta la loro freschezza, come se fossero stati improvvisati al mercato, ciò a dimostrazione che, come ancora oggi avviene quando si registra una trasmissione nelle piccole televisioni locali, anche in un ambiente estraneo e non certo favorevole alla creatività poetica, i nostri poeti erano capaci di dare un saggio estremamente rigoroso della loro arte.

Oggi anche la televisione ha documentato sia pure approssimativamente esempi di poesia estemporanea, ma i tempi concessi dal piccolo schermo sono troppo brevi, neanche un minimo di riscaldamento per chi è abituato alle fiere o mercati, alle lunghe veglie sull’aia o al canto del fuoco, e manca l’essenziale presenza del pubblico.
L’unica manifestazione in cui è stato possibile ricreare, almeno in parte, l’ambiente popolare del passato sono gli Incontri di Poesia estemporanea di Ribolla, oggi giunti alla XIV edizione. Nel piccolo centro maremmano rimane ancora un profondo legame con la tradizione dell’oralità, un amore sincero per l’improvvisazione in ottava rima. Dal 1992 convengono nel circolo locale i maggiori poeti improvvisatori della Toscana e del Lazio, si scelgono i temi col sorteggio, si ascoltano in religioso silenzio i temi proposti dal pubblico che affolla la sala sempre pronto a sottolineare con scroscianti applausi i migliori versi. Da allora dobbiamo registrare una forte ripresa della tradizione poetica estemporanea che ha attirato anche un ricambio generazionale. Sono stati pubblicati libri, articoli di giornale, passaggi televisivi; un interesse che è arrivato fino alle aule universitarie. Sono poi nate anche altre manifestazioni similari: ad Agliana, Arezzo, Siena.
La poesia estemporanea, data per morta più di un secolo fa, è ancora seguita da un suo fedele pubblico, ciò fa ben sperare.
Abbiamo osservato come la poesia degli improvvisatori fosse stata nel secolo scorso forse troppo sbrigativamente accantonata come rozza, volgare e/o priva di interesse storico o di valori estetici tali da competere con gli stornelli, i rispetti o i canti d’amore; la sola Francesca Alexander, la cui analisi non era viziata da poco opportuni paragoni con i sommi poeti del passato, riesce a dare di quel canto un’immagine serena e veritiera, riesce a cogliere pienamente il valore anche estetico delle ottave contadine, che risplende di una luce propria e, se non ha raggiunto le vette supreme della poesia colta, è perché l’ambiente non ha permesso a questi poeti di superare l’ardua barriera che separa le due culture; vogliamo insomma dire che se a Beatrice di Pian degli Ontani o a Vasco Cai, o a Gino Cecherini fossero state aperte le porte della scuola, dei grandi teatri e delle accademie letterarie, forse lo scaffale della nostra letteratura avrebbe qualche poeta in più da annoverare. Era successo nel Settecento con Metastasio, è successo ancora oggi con Roberto Benigni.
Il fatto che un poeta contadino ignori Petrarca e Leopardi nulla toglie al valore poetico dei suoi versi, quando questi riescono a comunicare un’emozione, un sentimento, in una sola parola riescono ad essere “scuola”, quella scuola ambulante di cui parlava Vittorino Poggi.
Ma in quell’ambiente solo apparentemente rozzo e volgare, dove vivevano pastori e contadini, dove lo spazio lasciato vuoto dalla “scuola ufficiale” era enorme fino a pochi anni addietro, si spandeva invece la voce del poeta, il canto e la sua vena inesauribile con cui sapeva affrontare (e trasmettere) anche i grandi temi della storia; ed anche nelle piazze e nelle osterie dei villaggi, nelle aie e nelle grandi cucine contadine, dove si trovava un’umanità vera, poco disposta a scendere a compromessi con quella che era la cultura ufficiale dominante.
Il pubblico dei poeti popolari non lo abbiamo mai visto annoiato come quello che frequenta le scuole e le università, anzi lo abbiamo sempre visto seguire con vibrante partecipazione ogni occasione di canto, perché quella era la cultura in cui si riconosceva. Canti fatti dal popolo e per il popolo, per attenerci alla prima delle tre definizioni di Rubieri (due: canti composti per il popolo ma non dal popolo, tre: canti scritti né dal popolo né per il popolo ma da questo adottati perché conformi alla sua maniera di pensare e di sentire) che Gramsci sottolinea nellle sue osservazioni sul folclore.
La poesia di improvvisazione crediamo di poterla collocare al primo punto anche se del terzo contiene quel suo “ essere conforme alla sua maniera di pensare e di sentire”.
Scrive ancora Gramsci, ed anche questa osservazione ben si adatta alla poesia estemporanea, “ciò che contraddistingue il canto popolare nel quadro di una nazione e della sua cultura non è il fatto artistico (bello, sublime, rozzo…) né l’origine storica (quando è nato il contrasto? chi lo ha usato per la prima volta?) ma il suo modo di concepire il mondo e la vita. Che nel caso dei poeti ambulanti si identifica perfettamente con la struttura ideologica semplice ma essenziale, di quella folla attenta e rispettosa che si accalcava intorno alle povere bancarelle.
Abbiamo potuto documentare solo una parte della loro opera, ma sufficiente per capire a fondo la poetica dei bernescanti; certo il bisogno di evasione delle genti contadine, che vengono al mercato oppure vanno a veglia, meritato riposo dopo lunghe giornate di lavoro, spesso richiede ai poeti un canto giocoso, e ne abbiamo visto i temi, ma quando la storia incombe, quando si devono giudicare (o decidere) i grandi temi della Pace e della Guerra, della Politica o della Religione, della Vita o della Morte, i poeti non si tirano indietro e affrontano la storia, senza incertezze di giudizio: sanno e comprendono benissimo dove sta il torto e dove la ragione, dove sta la giustizia e dove l’ingiustizia, il male (la violenza e la guerra) e il bene (la pace e l’amore). Il poeta popolare ha cantato Napoleone e Mussolini, la democrazia e la dittatura, la religione e l’ateismo, la natura e la scienza, su queste categorie di pensiero ha sempre dato la sua interpretazione dei fatti con incrollabile sicurezza, senza lasciare “ai posteri l’ardua sentenza” come qualche altro poeta ha fatto.

Alessandro Bencistà

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE:

FABRIZIO FRANCESCHINI, I contrasti in ottava rima e l’opera di Vasco Cai da Bientina, Pacini ed. Pisa 1983 ;
GIOVANNI KEZICH, I poeti contadini, Bulzoni ed. Roma 1986 ;
ALESSANDRO BENCISTA’ (a cura) I poeti del mercato, ed. Studium, Radda in Chianti, 1990 ;
MAURO PASTACALDI (a cura) …se tu guadagni otto e spendi nove…Mario Andreini un maestro della poesia estemporanea, Ed. Pantagruel, Pistoia 1992 ;
BENCISTA’ ALESSANDRO (a cura), I Bernescanti, Polistampa ed. Firenze 1994 ;
AA.VV. L’arte del dire, Atti del convegno di studi sull’improvvisazione poetica, Biblioteca Chelliana-Archivio delle Tradizioni Popolari della Maremma Grossetana, Grosseto 1999 ;
CORRADO BARONTINI (a cura), Il cantastorie, Biblioteca Chelliana-Archivio delle Tradizioni Popolari della Maremma Grossetana, Grosseto 2000 ;
C.BARONTINI-A.BENCISTA’ (a cura), Poesia estemporanea a Ribolla, ToscanaFolk-Laurum ed. Pitigliano, 2002;
BATTISTONI GIANNI, (a cura), Cantar in poesia, Due concorsi di poesia estemporanea, Querceto 1938 – 1939, Ed. Polistampa, Firenze 2003;
BENCISTA’ ALESSANDRO, L’ambulante scuola, Sempre Editrice, Firenze 2004;
BENCISTA’ ALESSANDRO (a cura), L’alluvione dell’Arno nel 1333 e altre storie di un poeta campanaio, LibreriaChiari ed. Reggello 2006

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o4. Il Cantastorie e i poemi cavallereschi in Toscana

Bruscello Qui

Il personaggio più amato ed atteso nelle grandi e fumose cucine di campagna, specialmente per Carnevale, ma anche in Quaresima era il Cantastorie , uomo estroso, memoria storica della tradizione trasmessa oralmente, buon narratore, animatore di veglie, recitava poemi cavallereschi, o rime da lui composte con uguale impegno, in occasione di sposalizi, feste campestri o in occasioni particolari, come il pranzo per la fine della trebbiatura, o per la sfogliatura del granturco.

La musica era costituita da motivi tradizionali che ritroviamo nel Bruscello attuale, nelle musiche dello Storico e del Cantastorie. Conosceva a memoria tutte le musiche ed i testi che venivano tramandati oralmente. Personaggio simpatico, certamente non astemio, attirava su di sè l’attenzione di tutto l’uditorio, dal Capoccia alla Massaia dal figlio maggiore alla sua sposa , dal nonno solitamente appostato nel cantone del focolare, al nipotino. Intorno a questo personaggio, si raccoglievano i bruscellanti ; con l’occasione egli prendeva il nome di Vecchio del Bruscello, insieme a lui i bruscellanti sceglievano il testo, il Cantastorie assegnava le parti, compresa quella femminile e cominciavano le prove, in una stalla o in un granaio. Nel periodo di Carnevale, il Bruscello iniziava la sua peregrinazione di podere in podere. La questua che seguiva la rappresentazione era destinata ad una cena di tutta la Compagnia. I Bruscelli duravano circa mezz’ora, i costumi venivano improvvisati dagli stessi bruscellanti : spade di legno, corazze di latta, cimieri di bambagia o di stoppa, scudi di cartone, giubbe rovesciate e pantaloni stretti in fondo, questi erano i costumi del Bruscello, la voce ora forte, ora stridente, l’intonazione grave, affrettata o solenne servivano a sottolineare l’intensità del sentimento o la drammaticità dell’azione. I personaggi, sia maschili che femminili, venivano interpretati da uomini, la musica veniva suonata dalla fisarmonica con accompagnamento di tamburi o cembali, violini chitarre e flauti.I Bruscelli venivano rappresentati, preferibilmente, il sabato o la domenica ; i bruscellanti arrivavano al podere in corteo ; in testa il Vecchio del Bruscello con l’arboscello in mano, dietro la musica e poi i bruscellanti che si disponevano a semicerchio ed iniziavano la recita cantando in coro l’invocazione alla Massaia che offrisse uova farina e vino per la grande mangiata. La famiglia che ospitava i bruscellanti, di solito offriva o la cena o uno spuntino ; gli spettatori, contadini dei poderi vicini, che avevano seguito i bruscellanti, portavano in dono uova, formaggio, salumi e fiaschi di vino, che venivano consumati in allegria fra canti e suoni, battute frizzanti e sberleffi. Il Bruscello veniva rappresentato nelle stalle o nei fienili, era molto apprezzato dagli spettatori, che non perdevano una battuta della recita, parteggiando per questo o quel personaggio : di solito il buono o colui che aveva subìto il torto o l’ingiustizia, e finivano per imparare a memoria i testi ripetutamente ascoltati. Il Bruscello è così giunto fino a noi mutato nella forma per la necessità di allestire uno spettacolo confacente ai gusti del popolo, ed ai suoi profondi cambiamenti.[/b] E’ un esempio di teatro popolare che vive e si trasforma, ma che rimane legato ad una tradizione che non è morta con la scomparsa del mondo contadino, ma che è sopravvissuta al suo disfacimento perché ancora prima che questo avvenisse si era già evoluta e trasformata, ed oggi dopo oltre 60 anni è sempre viva e fa rivivere sul sagrato del Duomo i suoi leggendari personaggi che l’animo popolare ha reso immortali.

 

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Protetto: Poesia Dialettale – GiornataMondialePoesia2013

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Poesia dialettale su Rairadio3 – Giornata mondiale della poesia

L’autore dell’immagine è Giorgio Vicentini

Nella giornata mondiale della Poesia, giovedì 21 Marzo, Radio3 parlerà le tante lingue dei poeti dialettali italiani. Dalla Valle d’Aosta alla Sicilia tutta la Penisola sarà percorsa da quella ricchezza di sonorità, di accenti, di inflessioni che rendono unica l’Italia. Dalle 6.00 della mattina ogni trasmissione avrà il suo poeta, con la sua storia, come direbbe Zanzotto con il suo “sapore”.

 

Alle 21.00, in diretta dalla Sala A di Via Asiago, 10 – Roma un omaggio alla grande poetessa polacca, premio Nobel per la letteratura 1996,Wisława Szymborska
L’attrice Licia Maglietta, accompagnata al pianoforte da Angela Annese, propone Ballata , un recital concepito come “un unico lungo respiro poetico, cantato all’orecchio di ogni spettatore, un lungo canto in prima persona come in prima persona è il canto di Fryderyk Chopin al pianoforte, che alle parole fa da contrappunto”.
A conclusione di giornata Franco Loi, il decano della poesia dialettale italiana, sarà ospite di Radio3 Suite in una intervista realizzata da Nicola Pedone.

poesia21RIME per INCANTO

Attori detenuti della Compagnia della Fortezza
del Carcere di Volterra leggono poeti del ‘900
Un progetto di Erica Manoni e Lidia Riviello

 


POESIA DIALETTALE

regioni_mappa

PIEMONTE – Remigio Bertolino – Claudio Salvagno

LIGURIA – Roberto Giannoni

LOMBARDIA – Edoardo Zuccato – Franco Loi

FRIULI – Nelvia  Di Monte

VENETO – Renzo Favaron -Luigi Bressan

EMILIA ROMAGNA – Annalisa Teodorani – Nelvio Spadoni

ABRUZZO – Ottaviano Giannangeli

UMBRIA – Annamaria Farabbi

LAZIO – Riccardo Duranti – Cetta Petrollo Pagliarani

CAMPANIA – Canio Lo Guercio – Mimmo Borrelli

PUGLIA – Lino Angiuli – Francesco Granatiero

BASILICATA -Domenico Brancale – Salvatore Pagliuca

CALABRIA – Alfredo Panetta

SICILIA : Dina Basso – Nino De Vita

SARDEGNA – Antonella Anedda

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Cantastorie – 01. Frammenti di una storia

Tratto da qui

 

cantastorie1Discendente diretto dei menestrelli medioevali e dei musici ambulanti, che cantando portavano ovunque gli echi d’antiche gesta e incredibili prodigi, il Cantastorie è stato nel tempo una delle figure più vivaci della tradizione popolare.

Quest’ artista ambulante arrivava anche nei paesi più sperduti eseguendo un repertorio di cantiche tramandate dalla tradizione, oppure inventate e composte da lui stesso, sui temi e gli argomenti del momento.

Animava le feste popolari, s’insinuava nei balli, nelle cerimonie nuziali, nei battesimi e nelle cerimonie religiose. Nei secoli, il mestiere e l’arte dei Cantastorie, sono stati molto importanti per la diffusione d’una cultura omogenea, attraverso gli strati sociali dei diversi stati e delle diverse popolazioni della penisola italica.

Tutto sommato, l’unita d’Italia è storia recente.

Per secoli la nostra penisola è stata un caleidoscopio di piccoli stati con proprie leggi, monete e spesso con proprie culture.
La comprensione di questo fatto, permette di dare al Cantastorie un particolare rilievo, inserendolo nei vari eventi culturali che nel passare dei secoli. permisero la diffusione e lo sviluppo di una informazione culturale unitaria e quindi nazionale.

Evidentemente l’influsso del Cantastorie, non ebbe carattere politico ma semmai poetico; lui era il modesto e inconscio portatore d’una informazione culturale alla quale tutti, analfabeti inclusi, potevano accedere.

Era il propagatore e il campione della cultura orale, era una delle poche fonti di riferimento che aveva il popolo analfabeta per sapere ciò che accadeva altrove, e per altrove intendo ciò che accadeva fuori dalle mura della città, oltre l’orizzonte, in altri luoghi e altri mondi.

E il mondo a quei tempi doveva apparire davvero grande, misterioso e pieno di avvenimenti magici.[i] Il pubblico delle piazze che accorreva ad ascoltare le sue storie che spesso riguardavano anche avvenimenti politici, memorizzava facilmente le semplici rime che le componevano.

Grazie alla facile memorizzazione le storie potevano poi essere ripetute ad altra gente.

In questo modo le storie dei Cantastorie viaggiavano di bocca in bocca, si espandevano e penetravano fin dentro le case.
L’arte poetica dei Cantastorie, ha attraversato in modo orizzontale l’intera società.

Egli si esibiva ovunque potesse appoggiare la sua piccola panca (da qui anche il nome di Cantimpanca o Cantimbanco), e salito sopra questo minuscolo palcoscenico, spesso grande poco più dei suoi piedi, egli lanciava al pubblico, nobile, borghese, proletario che fosse, il suo canto e le sue storie.

BREVE GENEALOGIA

Passiamo ora all’albero genealogico dei Cantastorie, le cui radici credo antiche quanto la storia dell’uomo, così come credo che il desiderio di raccontare storie sia nato con l’uomo.

Innanzitutto dobbiamo tenere presente un dato importante: il Cantastorie è un artista di piazza. Questo significa che le sue origini, si mischiano con quelle di tutti gli altri artisti, che nel tempo hanno agito o si sono evoluti, partendo da quel particolare spazio sociale che è la piazza.

I dati storici comunemente accettati, fanno idealmente partire la storia degli artisti di piazza dall’epoca romana.

Dato questo presupposto, si può dire che il Cantastorie è un discendente naturale degli antichi Histriones, parola con la quale si denominavano gli attori romani.

Il termine Histriones sembrerebbe di origine latina; dico sembrerebbe perché Tito Livio (59 a.C.) nel volume VII delle Storie, sostiene che Histrio era parola di origine etrusca, indicante gli attori etruschi che nel 364 a.C. andavano a Roma per prendere parte ai ludi scenici e che, in gruppi o singoli, si esibivano in vari luoghi.

Solo in seguito diventò termine generale indicante anche gli attori romani.
Attraverso i tempi numerose sono le ramificazioni che si sviluppano da questo primo tronco, e che quindi interessano l’evoluzione dei Cantastorie.
Egli è anche l’erede della stirpe dei Giullari, un genere di musici – attori – buffoni, che allietarono piazze e castelli tra il 1200 e il 1300.

Questi cantavano, ballavano, suonavano, recitavano monologhi drammatizzati utilizzando travestimenti e maschere.

Alcuni giullari di aspetto deforme, come i gobbi e i nani, trovarono collocazione fissa nei palazzi dei nobili, diventando buffoni di corte.

Altri mantennero una propria indipendenza, agendo nelle piazze in occasione delle fiere e delle numerose feste, dove cantavano antiche leggende, storie amorose, scherzose e lascive.
Molto amati dal popolo, ebbero un periodo di grande trionfo, tanto da essere chiamati a recitare i loro monologhi anche dentro le chiese.
Ma furono poi bollati d’infamia da numerosi predicatori e paragonati al diavolo, a causa dei grotteschi travestimenti e delle maschere caricaturali.
Scomparsi i Giullari, nelle piazze trova spazio una generica folla di giocolieri, funamboli, ammaestratori, ciarlatani da fiera, suonatori e cantatori di cui le antiche cronache già attestano l’esistenza nei vari territori della penisola italica fin dal 540.

Altra ramificazione è quella dei Menestrelli che erano praticamente uomini di corte, veri e propri cortigiani che nella maggior parte dei casi operarono all’interno dei palazzi.
Questi era a diretto servizio del nobile che l’ospitava e del quale, nelle canzoni, esaltava le gesta e cantava la magnificenza; si occupava inoltre di allietare con musiche, danze figurate e canzoni d’amore, le feste di dame e cavalieri.

Un altro ramo molto rigoglioso e importante è quello dei Trovadori provenzali, che fuggiti dalla Francia per le numerose persecuzioni religiose in atto nella Provenza del 1200, trovarono nei piccoli stati italici – in particolare Bologna, Firenze e in Sicilia – nuova fortuna e impulso, tanto che la loro arte fiorì e si diffuse lungo tutta la penisola fin verso il 1400.

L’ arte e la cultura dei Trovatori influirono anche nello sviluppo di importanti generi poetici come lo Stilnovo.
Quest’ influsso lo si avverte nell’opera di grandi poeti del 1300, come Dante e Petrarca, nel Boccaccio delle rime, e nel 1400 nelle opere del Poliziano e Lorenzo il Magnifico.
I Trovatori, fecero conoscere in Italia anche il genere delle cantafavole di origine orientale e il canto epico/ narrativo, attraverso i quali in seguito si svilupparono in Italia diversi cicli di racconti:
il Ciclo Religioso, con storie elaborate dalla Bibbia,
il Ciclo Classico, con storie di origine greco – latina e con personaggi di derivazione omerica,
il Ciclo Bretone dedicato a Re Artù e i Cavalieri della Tavola Rotonda
il Ciclo Carolingio dedicato a Carlo Magno e alle Crociate,
da cui poi scaturì la Storia dei Paladini di Francia, le cui avventure ancora oggi sono narrate nei teatri di Pupi Siciliani.

Ma è nel tardo 1500 che tra i tanti artisti di piazza, si comincia a distinguere con precisione la figura dei Cantastorie.
Il suo tratto iconografico assume personalità e individualità tanto da diventare un artista a se stante ed è così che arriva fino al primo novecento, per diventare anche un nostro contemporaneo.

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