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Cantastorie – 03 – La piazza, lo spazio ideale dei cantastorie

Tratto da qui

Il tema della tutela dei beni immateriali (feste, rituali, costumi…) è all’ordine del giorno. L’Italia ha ratificato recentemente la convenzione dell’Unesco del 2003 su questo tema e si appresta a stilare una “lista” nazionale dei beni da valorizzare e tutelare. Mauro Geraci è un antropologo, professore associato di Etnologia presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Messina, grande studioso dei cantastorie e cantastorie egli stesso. In questa intervista espone la sua teoria sugli aspetti critici della tutela, sul ruolo del ricercatore antropologo, sulla figura del cantastorie.

Le feste, le tradizioni sono considerate come patrimoni da difendere, da tutelare per impedirne la sparizione o l’oblio. È possibile stabilire un criterio una volta per tutte che promuova un fatto culturale piuttosto che un altro?

«È già difficile sostenere che un canto o una festa popolare o una performance siano immateriali: di fatto sono composti da strumenti musicali, divise delle congregazioni che sfilano lungo le strade, fiori per quello che riguarda le infiorate: si tratta di oggetti, di materiali. Anche i concetti d’altra parte potrebbero essere considerati “beni immateriali”: l’onore o la verginità, ad esempio, sono fatti culturali, che ci piaccia o meno; il problema è il punto di vista. E ancora, chi decide che questa festa deve essere valorizzata e non quell’altra? Gli antropologi a volte possono studiare un evento festivo per diversi anni (vedi Malinowski, che ha passato quattordici anni a studiare la forma di scambio kula dei trobriandesi), e la conclusione di solito è che il punto di vista di chi pratica la festa – il cittadino, il prete, il mafioso, l’amministratore locale – è fondamentale. Un conto dunque è “valorizzare” solo l’aspetto estetico, folkloristico; un altro è riflettere davvero sul punto di vista, cioè sulla politica della valorizzazione».

Possono essere stabiliti dei criteri? L’Unesco parla di rappresentatività dell’evento all’interno della comunità. C’è un ruolo dell’antropologo nel definire contorni e sostanza del concetto di tutela?

«Prendiamo la Festa dei Gigli di Nola: dai Gigli oggi vengono suonate canzonette, marcette, e non le tammurriate della tradizione contadina, eppure la festa dei Gigli di Nola ha una sua continuità, anche se si tratta di un festival più che di una festa. Credo insomma che il discorso della tutela debba essere distaccato da un approccio antropologico, il quale non deve riconoscere “beni” e “mali”, perché il concetto di bene si lega al concetto di utile, a ciò che va accumulato, a ciò che tranquillizza, a ciò che può essere scambiato, ma non è questo il progetto dell’antropologia. Io penso che l’antropologia debba invece studiare come si articolino determinati fenomeni nella continuità, deve chiarire i punti di vista, anche quelli che rischiano chiaramente di essere ottocenteschi, di stampo positivista. Oggi l’antropologia ha fatto molti passi avanti, e grazie anche all’apporto di intellettuali eretici come Scotellaro, Pasolini, Dolci, Revelli si occupa anche di autobiografia, di scritture contadine, portando il discorso dei contadini dentro l’accademia. Lentamente si è passati dal considerare il mondo contadino come essenzialmente legato all’oralità al connetterlo con la modernità: io mi sono occupato dell’autobiografia di un cantastorie con la quinta elementare, Vito Santangelo, che dal 1974 ha iniziato a scrivere tutta la sua vita. Dunque il mondo contadino non è più quello pregramsciano, idealizzato dal romanticismo: Goethe nel suo viaggio in Sicilia cadeva in stereotipi di tipo orientalista, e d’altra parte la Sicilia era un po’ come il Bangladesh di oggi.
Il punto di vista è fondamentale: se allestiamo un museo degli attrezzi agricoli bisogna chiarire il ventaglio mutevole degli usi ad essi connessi. Insomma, di quali pratiche stiamo parlando? Di quelle del bracciante oppure di quelle di Candido, il barone feudatario descritto da Sciascia, che per dimostrare di essere “vicino ai contadini” – così come Fernando di Borbone era “vicino” al popolo napoletano per il solo fatto che parlava la lingua – si mette anche lui a coltivare un pezzetto di terra per l’orto, con gli stessi attrezzi, gli stessi utensili dei contadini sfruttati? È sicuramente più facile tutelare gli archivi, le biblioteche, i musei archeologici: bene o male all’interno di un archivio puoi trovare carte che parlano di Garibaldi come di un eroe e altre che dicono il contrario: sono tutte e due consultabili ed è possibile accedere a fonti diverse. Ma se parliamo di beni cosiddetti immateriali la cosa si complica molto: se già un libro non esiste se non nella molteplicità delle letture che ne possono essere date, in una festa questa variabilità si moltiplica in modo esponenziale. Perlomeno in un caso – il libro – abbiamo un testo scritto, ma nella festa, o di un canto, non c’è: è un miscuglio di visivo, di orale, di musicale, di simbolico, di politico.
Il rischio della valorizzazione dei beni immateriali è che vengano utilizzati, magari in modo più “raffinato”, gli stessi quadri conoscitivi che alimentano il mercato folkloristico e turistico. Appunto per questo il campo della tutela non dovrebbe sovrapporsi a quello dell’antropologia, e un antropologo non dovrebbe addentrarsi nella scelta di cosa va tutelato e cosa no. La disciplina per funzionare deve paradossalmente smettere il suo essere disciplinare, non deve scegliere; l’antropologo può invece collaborare, può segnalare sviluppi, aperture, contraddizioni».

L’Opera dei Pupi è già stata riconosciuta come capolavoro del patrimonio orale e immateriale dell’umanità dall’Unesco. È possibile che ci sia un riconoscimento equivalente per il patrimonio rappresentato dai cantastorie?

«Ritorna qui la questione del punto di vista: forse il teatro dei Pupi gode di un riconoscimento tanto importante perché vincono sempre i cristiani e perdono sempre i pagani? I Pupi riportano sulla scena i valori della regalità della feudalità, della sottomissione al più forte, della cristianità armata qual era quella di Orlando, mentre invece i cantastorie queste cose le demoliscono; basti analizzare come il repertorio epico-cavalleresco viene trattato dai pupari e come viene trattato dai cantastorie per trovarsi di fronte a due prospettive completamente diverse. I cantastorie scavano nella Chanson de Roland, nei repertori medievali e rinascimentali; i pupari nascono in Sicilia nell’Ottocento e attingono alle rivisitazioni romantiche dello stesso repertorio, perdendo così alcune caratteristiche. Nella Chanson de Roland a un certo punto Orlando – mentre sta morendo – sembra accennare ad un pentimento; muore da cristiano con la croce stampata sulla corazza e con la Durlindana in mano, che tra l’altro nell’incrocio tra l’elsa e la lama contiene un reliquiario dove si conserva un pezzettino della croce di Cristo. Ma con quella stessa spada lui ha ammazzato i Saraceni a migliaia! Nel momento della morte si ricorda del perdono e del cristianesimo non armato. Ignazio Buttitta, grandissimo poeta cantastorie, commenta così il perdono improvviso di Orlando: “cu sapi si u Signuri u fa trasiri ‘nto u Paradisu!”. In questo modo il cantastorie mette in discussione implicitamente l’icona di Orlando come Cristo armato, primo Paladino di Francia e condottiero valoroso: non è affatto sicuro che il Signore lo accolga in Paradiso.

I cantastorie dunque esplicitano le contraddizioni, e non hanno una scena predefinita; i pupari invece non fanno altro che ripresentare i valori del mito. La spada che muovono i paladini dipende direttamente dalla bacchetta che tengono in mano i pupari: è una spada che separa il valore dal disvalore, la cristianità dalla paganità. Dunque c’è sempre una scelta di carattere etico-politico dietro la tutela, ma quando si arriva alle scelte cessa l’antropologia, perché l’antropologo più non sa più è tale. Un altro esempio della parzialità dei punti di vista è la gestione dei simboli festivi che diventa motivo di consenso. Io sono stato a Priverno a vedere una straordinaria festa del Venerdì Santo, e si vedevano chiaramente le contraddizioni enormi tra una festa basata sul silenzio e il megafono della chiesa nuova che rompeva quell’equilibrio simbolico.
Il contributo che l’antropologo può dare alla tutela è fare scattare questi ragionamenti. Nell’arco di decenni si può arrivare a progetti di tutela più consapevoli e rispettosi. L’antropologo non fa ricerca come l’astronomo che studia le stelle; l’universo dell’antropologo si modifica mentre ci sei dentro, non è possibile documentare alcuna realtà oggettiva: la realtà è frutto della descrizione che ti fanno quegli uomini, quelle donne e non altri, di quella che fai tu in questo momento e in questo luogo, diventa un fatto quasi esistenzialista. Ci sono dei musei per esempio in cui questo aspetto creativo non viene taciuto, anzi viene messo in primo piano. Non è, ad esempio, il museo “del brigantaggio”: è il museo del brigantaggio fatto da questi informatori e da questo studioso con questa visione. Allora diventa come un libro, o un quadro e là l’assunzione della poetica è importante.
Compito dell’antropologo è fare insorgere dei dubbi che a lungo andare rendono più consapevole chi è predisposto alla tutela a un maggiore rigore scientifico».

Qual è la modernità del cantastorie? Quale la sua identità oggi?

«All’interno di ogni ambito socio-culturale ci sono zone che non sono affatto improntate alla cosiddetta “tradizione”, anzi tutt’altro. Il cantastorie esattamente come il pittore o lo scrittore deve variare la sua arte. Se uno va a cantare sempre la Baronessa di Carini o Orlando e Rinaldo o la leggenda di Colapesce, non è un cantastorie, ma la macchietta stereotipata di esso. Però paradossalmente quando si tenta di “valorizzare” il cantastorie vince lo stereotipo dell’”ultimo”, di quello che canta le “cose antiche”, ma a ben vedere non c’è nessuna antichità da rivendicare. I cantastorie nascono con la modernità, nel momento in cui dopo la Prima Guerra Mondiale la canzone si comincia un po’ ad americanizzare, si sviluppano le prime forme di disco, si afferma più robustamente una cultura nazionale e internazionale, di massa, ed è a questa che i cantastorie si rivolgono. Non è un fatto locale; la tradizione viene continuamente ripensata, i mezzi di comunicazione si rinnovano – tutti i cantastorie oggi hanno siti internet – ed il loro sapere è basato non sulla tradizione ma sull’innovazione. È l’aspetto moderno dunque che andrebbe tutelato e non lo stereotipo del cantastorie come ultimo relitto di un medioevo disneyano. Se invece si colloca il cantastorie in un museo o in una manifestazione gestita – mettiamo – dalla pro loco con fini di promozione turistica, di fatto gli si sta sottraendo il suo spazio ideale che è la piazza, telematica o reale che sia. I cantastorie riflettono su questioni della vita contemporanea, scrivono della guerra in Iraq, cantano la violenza sulle donne: è questo spessore critico che andrebbe valorizzato nel restituire la piazza come spazio libero ed imprevedibile di riflessione pubblica.
Un po’ come l’antropologo il cantastorie prima di scrivere un testo si deve documentare, parla con i diretti protagonisti, legge i giornali, si informa, assembla i materiali e cerca di ricostruire – senza levare e mettere, come diceva Orazio Strano – una versione poetica dei fatti. Che non è definitiva; viene poi musicata e cantata in piazza, quindi sottoposta al giudizio pubblico, e magari commentata, interrotta, evidenziata in un passaggio invece che in un altro. È una versione scritta che viene riesposta alla riflessione collettiva, un sapere sempre in movimento. Il cantastorie si estranea dal proprio giudizio, magari è di parte ma denuncia questa parzialità, offrendo gli elementi per attaccare, contrastare, ripensare insieme un fatto. Il cantastorie è mediatore nel senso più pieno del termine perché utilizza diversi mezzi – oralità, pittura, musica, gestualità, grafica – e la storia che narra viene spaccata in più canali comunicativi, ma anche perché presenta una storia “esterna”, che deve poi però rappresentare in prima persona, incarnando il personaggio, il bandito, il carabiniere, la mamma; possiamo dire dunque che si muove di continuo tra presentazione e rappresentazione.

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